Condividiamo l’intervista di Rita Balestriero a Matteo Lancini per Repubblica.it
Partiamo da Marte. “Perché è come se nel 2010, dando ai nostri figli uno smartphone in mano, li avessimo spediti lassù nello spazio. E ora che i dati ci dicono che sono aumentati i tassi di suicidi tra i minorenni, che i ragazzi soffrono d’ansia come mai prima nella storia e che si sentono terribilmente soli, iniziassimo a preoccuparci e volessimo riportarli indietro. Questo”, scrive lo psicologo americano Jonathan Haidt nel suo nuovo saggio The Anxious Generation (Penguin Press), “è il più grande e irresponsabile esperimento che l’umanità abbia mai fatto sui bambini”.
E ora torniamo sulla Terra. Fine marzo 2024, negli Stati Uniti esce il libro di Haidt, ne scrive lui stesso sulla rivista The Atlantic con cui collabora da tempo e così la sua teoria rimbalza sui media di tutto il mondo. I dati, d’altronde, spaventano un po’ ovunque: rispetto al 2010 gli adolescenti americani che soffrono di ansia e depressione sono aumentati del 50%, i suicidi del 48%, quelli delle femmine tra i 10 e il 14 addirittura del 131%. In Europa, un ragazzo su 5 tra i 15 e i 19 anni ha problemi legati alla salute e al benessere mentale. Secondo l’ultimo report dell’Unicef nove milioni di adolescenti, tra i 10 e i 19 anni, convivono con questi disturbi: nella metà dei casi si tratta di ansia e depressione.
Ma perché Haidt parla del 2010? C’è una ragione precisa: è quello il momento in cui si è inceppato qualcosa, o meglio, in cui abbiamo iniziato a dare gli smartphone in mano ai nostri figli (il primo iPhone è del 2007), tanto che già nel 2015 il 73% dei teen ne aveva uno e un quarto di loro diceva di essere quasi sempre online. Questa, secondo Haidt, è la causa scatenante del malessere della Gen Z. «La loro vita è cambiata dal momento in cui hanno avuto un device in tasca», ha spiegato lo psicologo. «Si sono trasferiti sugli schermi e hanno smesso di guardarsi negli occhi: è cambiato il loro modo di frequentarsi, amarsi, allenarsi, dormire… E queste sono le conseguenze». Ecco perché lui parte proprio da lì per cercare una soluzione che sintetizza in quattro regole: vietare lo smartphone fino alle superiori, i social fino ai 16 anni e, più in generale, bandirli in tutte le scuole. In cambio, propone di restituire ai bambini l’indipendenza che gli abbiamo negato, cioè la possibilità di giocare senza l’ossessivo controllo dello sguardo adulto. Che sembra facile, ma invece paradossalmente è la regola più complicata da mettere in pratica in questa società della paura. «Penso che i nuovi genitori siano più ansiosi delle generazioni passate per una questione di aumentata percezione dei pericoli», ripete da anni William Stixrud, neuropsicologo americano, autore del best seller The Self-Driven Child (Viking Books). «Sarà un po’ per colpa dei media e un po’ perché sono così stanchi che tendono ad avere sempre la sensazione di non riuscire a tenere tutto sotto controllo e quindi vivono in un perenne stato di ansia. Ma la verità è che il mondo era più pericoloso quando io ero piccolo e potevo starmene fuori casa tutto il giorno senza che mia madre mi geolocalizzasse».
Haidt non è il primo a mostrare la correlazione tra esposizione agli schermi e disagi. Già nel 2013, per esempio, il direttore del Centro per le neuroscienze e l’apprendimento dell’Università di Ulm, Manfred Spitzer, scrisse Demenza digitale (Corbaccio) indagando gli effetti dei device sul cervello di bambini e ragazzi, effetti che spiegò chiaramente anche ai nostri politici durante un’udienza in Senato nel giugno 2019.
«Il titolo del suo libro», spiega il pedagogista Stefano Rossi, appena arrivato in libreria con Se non credi in te, chi lo farà? (Feltrinelli). «Si riferisce alla somiglianza con i sintomi della demenza senile. Oggi, infatti, i giovani soffrono di disattenzione cronica, mancanza di memoria, fatica a comprendere i testi scritti, ma la cosa più preoccupante per me è il fatto che lo psichiatra tedesco abbia rilevato una modifica della corteccia prefrontale, quella che io definisco il timoniere delle emozioni».
Tutto chiaro, e molto preoccupante. «Però a me sembra che incolpando solo lo smartphone tendiamo a non dare alcuna importanza all’educazione», chiarisce Emanuela Confalonieri, docente della facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano. «Insomma, non è tanto l’oggetto, ma il modo in cui lo utilizziamo. E pensare che mettere i nostri figli in una campana di vetro sia la soluzione, significa non prendersi la responsabilità di educarli ai pericoli a cui, inevitabilmente, prima o poi andranno incontro». Secondo lo psicoterapeuta Matteo Lancini c’è un problema di coerenza. «Va benissimo dire che l’uso eccessivo dei device fa male ai ragazzi, però dobbiamo essere disposti a dimostrargli che ci crediamo davvero, cambiando anche le nostre abitudini: se nuoce a loro, nuoce anche a noi. Se invece siamo noi adulti i primi a restare attaccati agli schermi, allora li convinceremo del contrario».
In altre parole, secondo l’autore di Sii te stesso a modo mio (Raffaello Cortina Editore) il problema siamo noi genitori, «che non siamo capaci di far sentire i figli pensati, non sappiamo porgli le domande giuste, siamo terrorizzati dall’idea di concedere loro libertà d’azione e quindi “sequestriamo” i loro corpi monitorandoli di continuo. Ma poi quando loro, costretti in casa, si rintanano su internet li sgridiamo urlando alla dipendenza». Chiuso il cerchio. “Con uno smartphone in tasca siamo sempre da un’altra parte”, ha sintetizzato efficacemente il professore del Mit Sherry Turkle nel suo Reclaiming Conversation, The Power of Talk in a Digital Age (Penguin). E allora forse per reimparare a gestire conversazioni vere con i nostri figli, è arrivato il momento di silenziarlo. E ammettere che anche noi siamo parte “del più grande e irresponsabile esperimento che l’umanità abbia mai fatto”.