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Condividiamo l’articolo di Tina Simoniello con l’intervista a Matteo Lancini per Repubblica.it

Finirà la scuola e, per qualche settimana si interromperanno anche gli esami universitari. Per tutti inizieranno le vacanze e in qualche famiglia ci si porrà anche il problema del lavoro estivo dei figli. Fare il bagnino, la cameriera, il barista o l’animatrice dei centri estivi due o tre volte a settimana, per 3-4 settimane e poi basta serve per avere un po’ di soldi propri, per imparare a gestire il tempo e il danaro, per imparare cosa significa abbozzare anche quando si vorrebbe rispondere malamente. Serve per apprendere un po’ di vita vera, per fare un bagno di realtà. Ma davvero quest’esperienza ha lo stesso valore formativo per tutti?

Nell’estate del 2017 l’Economist pubblicò un articolo dal titolo “Il declino del lavoro estivo dell’adolescente americano”. Nonostante molti americani di successo raccontino le loro storie di sveglie all’alba e di capi severi – diceva il pezzo – il numero di ragazzi e delle ragazze che lavorano durante l’estate è passato dal 72% del 1978 al 43% del 2016. Da un sondaggio nazionale recentissimo del CS Mott Children’s Hospital condotto su campione di genitori di teenager a cui era stato chiesto di descrivere le loro esperienze, sembra emergere una certa nuova cautela, o quanto meno nuove considerazioni degli adulti nei confronti del lavoro stagionale giovanile, in un paese, gli Stati Uniti, dove rappresenta una vera tradizione socialmente e culturalmente molto trasversale: anche i figli dei benestanti da quelle parti lavorano quando finiscono le scuole o gli esami universitari.

Nel valutare se un lavoro è appropriato, si legge nel poll, i genitori considerano come molto importanti diversi fattori: se gli orari si adattano ai programmi dei ragazzi (87%), la comodità di accompagnarli (68%), se il lavoro fornisce davvero un’esperienza di apprendimento (54%), la retribuzione (34%) e la presenza di altri teenager (25%). Insomma, lavorare è una buona cosa, un’ottima cosa, lo era ieri, lo è oggi anche per i teenager e per gli adulti. Però, ecco… un po’ anche dipende.

Lo psicologo: “Molto dipende dal contesto in cui si cresce”

“Il valore dell’esperienza del lavoro dipende da variabili importanti che sono sociali culturali ed economiche cioè ha molto a che vedere col contesto nel quale il ragazzo e la ragazza crescono e vivono”, dice Matteo Lancini psicologo psicoterapeuta presidente della fondazione Minotauro di Milano.

“Per chi sta diventando adulto (e per segnare un confine diciamo che a partire dalla fine del liceo si è giovani adulti) – riprende l’esperto – il lavoro è un potente organizzatore psichico, rientra nel concetto di progetto individuale molto più che nel passato, ed è sempre più importante dal punto di vista psicologico. Una volta, il progetto individuale passava anche per altro, per esempio, tipicamente, attraverso la costruzione di una coppia tardoadolescenziale che poi col tempo si consolidava e diventava progettuale, mentre oggi l’idea di identità per il giovane adulto è sempre più legata all’individuo, al sé. E quindi al lavoro”.

Un grosso cambiamento, che però conferma quanto il lavoro, anche quello da studente, anche il lavoretto che dura qualche settimana, sia importante per chi sta crescendo. “Sì, anche il lavoro stagionale, il lavoretto insomma, è importante – riprende lo psicologo – Così come lo è guadagnare soldi, seppure poco, perché regala un senso di soddisfazione e aumenta l’autostima. Ma tutto questo è vero se il lavoro è un’esigenza, un’esperienza emancipativa, separativa, se è cioè costruttrice di identità per chi sta crescendo”.

I ragazzi non sono tutti uguali

E non lo è sempre? “Per alcuni possono essere più significative altre esperienze – riprende Lancini – ci sono giovani adulti, anche adolescenti, che decidono di partecipare a campi di lavoro estivi per sostenere persone in difficoltà, a campi scout… Anche quelle sono storie di crescita, di autonomia, di costruzione del sé e di emancipazione. A un 19enne conviene durante l’estate fare un’esperienza di crescita, il alcuni casi è un lavorativa in altri casi è volontariato, in altri casi ancora è una esperienza con gli amici. Al centro c’è la questione emancipativa, che non è detto debba essere retribuita”.

L’autostima e il successo passano anche per il web

Abbiamo parlato fino ad ora di lavoretti classici: nei ristoranti, negli stabilimenti balneari, nei campi estivi per bambini, ma c’è un altro enorme mondo di lavori che non hanno nulla a che vedere con la manualità: quello degli influencer tanto per cominciare. “Ecco, in questi casi parliamo di attività che aumentano l’autostima non necessariamente o non soltanto legata al guadagno, ma associata alla popolarità e al successo, anche molto rapido. La tecnologia ha cambiato tutto e piaccia o no internet è un luogo che permette di essere ‘riconosciuti’ dagli altri e anche un contesto dove si allenano competenze nuove”, è la riflessione dello psicoterapeuta.