“Ai giovani serve questo: una vera relazione con gli adulti”, Matteo Lancini in dialogo con Emanuele Aldrovandi

Condividiamo l’articolo de “La Lettura” del Corriere della Sera, scritto da Jessica Chia, che riporta l’intervista e conversazione con Matteo Lancini e Emanuele Aldrovandi (06 aprile 2025)

Solo la relazione ci può salvare. Lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini mette la relazione tra l’adulto e l’adolescente al centro del suo saggio, Chiamami adulto (Raffello Cortina). E «l’unica esperienza che ti può far cambiare idea se hai deciso di digiunare fino a scomparire o di ritirarti dalla scuola e dalla società. È tutto quello di cui ha bisogno un bambino, un figlio, uno studente». Oggi, sostiene l’autore, la disperazione e il disagio dei giovani è legata alla ricerca di una relazione, autentica, con l’adulto.

Dal saggio è appena stato tratto un adattamento teatrale (da un’idea di Giulia Coltoli), con la regia e la drammaturgia del regista e scrittore Emanuele Aldrovandi, che porta in scena lo stesso Lancini e l’attrice Sara Lazzaro. Dei temi dello spettacolo hanno parlato con «la Lettura» i due autori, in un dialogo che mantiene al centro il malessere di ragazze e ragazzi; imploso e poi fuoriuscito dalle nostre case come un’emorragia (mai arrestata) durante il Covid, si è tornati a parlarne anche con l’uscita su Netflix della serie britannica Adolescence (ideata da Jack Thorne e Stephen Graham), in meno di un mese tra le più viste di sempre sulla piattaforma.

Quali sono i temi del libro che emergono nello spettacolo?

Matteo Lancini – Come un adulto dovrebbe relazionarsi con i ragazzi. Emanuele mi ha proposto di fare me stesso in scena, mentre Sara Lazzaro rappresenta quattro personaggi che io incontro nella mia professione: una professoressa; una collega psicologa; una giovane paziente che porta tematiche legate al dolore profondo, ai pensieri suicidare, alla difficoltà della costruzione della relazione di coppia. La quarta è una mamma Il finale sostiene la relazione e quale sia oggi il molo di un adulto davvero significativo, che punta tutto su una relazione autentica, anche alla luce delle problematiche che stanno emergendo sulla violenza giovanile verso di sé o verso gli altri.

Emanuele Aldrovandi – La saggistica di per sé è assertiva perché il saggio è composto da una voce unica che afferma qualcosa attraverso i ragionamenti. E questa è la cosa più anti-teatrale che ci sia perché nel teatro è fondamentale Il conflitto. Quindi, sono partito dall’idea dei dialoghi platonici per far emergere i temi attraverso il confronto. Li ho declinati in bocca a quattro personaggi, cercando di rendere queste affermazioni condivisibili, per permettere poi a Matteo di ribalta-re il punto di vista, così non abbiamo perso l’assertività del saggio e nemmeno la dinamica teatrale.

Aldrovandi, lei ha già portato in teatro il tema dell’adolescenza…

Emanuele Aldrovandi – Nel mio spettacolo ora in tournée, Come diventare ricchi e famosi da un momento all’altro, racconto la storia di due madri: una cerca di far diventare famosa la figlia di sei anni come artista, e per farlo organizza un compleanno finto in cui invita una nota attrice, madre della compagna della figlia, per avere il suo appoggio sui social. In questa dinamica di rapporti genitori-figli, tratto molti temi toccati da Matteo: la frustrazione delle madri, la loro proiezione sulle figlie, quello che immaginano per il loro bene senza un reale ascolto del loro desideri. Però io uso un codice diverso, la tragi-commedia.

Matteo Lancini – C’è stata una visione comune, pur non conoscendoci, la stessa visione di approccio alla relazione, all’umanità e al sociale.

Emanuele Aldrovandi – È stato bello avere diretto due persone in modo opposto: c’è una mimesi teatrale da attrice, nell’altro caso c’è un performer che interpreta sé stesso, ma non con la «libertà che può avere in conferenza. Il risultato mi sembra abbastanza innovativo.

Il premier britannico Keri Starmer ha incontrato a Downing Street gli autori di “Adolescence”, serie tv che verrà mostrata nelle scuole. Lancini, perché se ne parla tanto?

Matteo Lancini – Primo: c’è un’esigenza non solo voyeuristica di parlare di emozioni disturbanti e violente. É un’esigenza che non viene trattata a scuola e, per assurdo, oggi la stanno assolvendo serie tv, canzoni… Secondo: quando c’è un forte impatto, come per i fatti di cronaca di Paderno Dugnano, nel Milanese il diciassettenne che nel 2024 ha ucciso a coltellate padre, madre e fratello di 12 anni, ndr), o il femminicidio di Giulia Cecchettin, è perché i genitori pensano che poteva accadere a loro. E nonostante poi si cerchino risposte stereotipate, in Adolescence ci sono storie di ragazzi e ragazze che possono essere i tuoi figli. Cosi non riesci a spostare iI disagio da un’altra parte. Terzo: la serie è efficace perché promuove delle identificazioni, che chiamiamo «multiple», capaci di non emettere un giudizio che ti fa sempre schierare da una parte. Infine: la serie dà una lettura del reale, non esiste un adulto significativo e i ragazzi a quel punto si rivolgono alla Rete; ci sono scene in cui consolano i loro adulti di riferimento, si imbarazzano per loro. E, coincidenza, an-che noi a teatro portiamo quattro personaggi che si sovrappongono alle quattro puntate di Adolescence: paziente, professoressa, psicologa, genitori.

Possiamo parlare di crisi degli adulti anziché di crisi degli adolescenti?

Matteo Lancini – Si e questo emerge sia nel libro che a teatro. Ma la mia non è una critica agli adulti; non è la visione di uno psicoterapeuta sedotto dai giovani. Noi abbiamo un modello di pre-sa in carico in cui i genitori sono considerati i principali co-terapeuti, non i colpevoli. Anzi: gran parte delle cose che dico nascono dalla mia identificazione con il dolore dei genitori che si rivolgono a noi per la sofferenza dei figli. Ci tengo a fare questa premessa, perché poi sostengo che noi adulti ci laviamo un po’ la coscienza incolpando di tutto internet. Al contrario, questo non vuol dire che allora è colpa dei genitori e basta. La nostra è una società complessa, articolata; i figli sono dentro molti modelli di identificazione e una delle questioni centrali è che in questi anni la nostra fragilità, e lo dico anche come padre, si sintetizza nel seguente tema: mentre in passato i padri mettevano al mondo i figli su un mandato verticale – devi lavorare e fare figli maschi – e mia nonna doveva fare figli, se no era una “zitella”, noi oggi abbiamo una nuova genitorialità, che dice al figlio: ti abbiamo voluto, sei figlio d’amore, non di un dovere. Infatti facciamo figli più tardi. Il vero motore della sofferenza è che prima sosteniamo di amarli troppo e di ascoltarli di piu, facciamo credere loro di capirli, poi interrompiamo il patto nel momento in cui i figli ci rompono le scatole. Cioè quando ci chiedono di identificarci con loro e di accettare che provano delle emozioni che a noi disturbano, e che esplodono nell’adolescenza: la paura, la tristezza, la rabbia. Noi queste emozioni le mettiamo a tacere perché disturbano il fatto che siamo impegnati a farci i cavoli nostri, andare in palestra, lavorare sodo… Quindi è vero che li ascoltiamo molto di più, ma questa promessa poi viene delusa nel momento in cui loro sono loro stessi o legittimano delle emozioni che ci disturbano.

Può fare degli esempi?

Matteo Lancini – Quello del cane e quello del clown. Il bambino incontra il cane e ha paura, la mamma dice: no, non devi aver paura, perché implicherebbe l’idea che lei non si senta adeguata. Il padrone del cane potrebbe dire: ma il cane è buono, sei sbagliato tu che hai paura. Così la paura viene messa a tacere, e non ammettiamo che è un sentimento legittimo perché il bambino prova sensazioni diverse da quelle in cui è stato incasellato. Oppure un bambino potrebbe intristirsi, anziché divertirsi, vedendo un clown a una festa. I genitori gli dicono: no non devi intristirti; perché questo implicherebbe che poi si deve andare via dalla festa, cambiare il programma, non puoi berti lo spritz con gli altri genitori… Questo è il tema: la fragilità adulta è legata al fatto che i figli non devono esprimere emozioni che ci disturbano. Quindi è un problema di mancata legittimazione del bisogni che disturbano la nostra organizzazione psichica e di vita personale e professionale. Ci facciamo sempre più i fatti nostri, viviamo in una società iperconnessa, chiediamo ai figli di essere sé stessi a modo nostro. Oggi non dobbiamo alfabetizzare emotivamente i ragazzi, ma gli adulti. Parlano di emozioni disturbanti più le serie tv, il cinema, le canzoni di Sanremo che la scuola o la famiglia. Poi un altro tema è che gli adulti stanno confondendo il reale con il virtuale. Sosteniamo che la violenza giovanile dipenderebbe dai videogiochi, dal social, dai trapper, non accettando che abbiamo 56 guerre, migliaia di bambini morti e siamo in una società dove la violenza reale, che costruisce un modello di identifica zione, sembra togliere senso alla vita. Dove la morte è all’ordine del giorno. C’è chi dice che è colpa del videogiochi. Ma nei videogiochi le morti sono simboliche, per quanto violente.

Emanuele Aldrovandi – Io ho una figlia di 5 anni, per cui cerco di capire cosa sto applicando nella mia genitorialità, e cosa invece cambierà. Certi modelli, che erano utili a descrivere l’adolescenza trent’anni fa, oggi sono desueti. C’è la necessità di adattare sempre i modelli di pensiero alla realtà che cambia. Io da relativista trovo interessante che certi approcci teorici, che valgono per la psicoterapia, per l’adolescenza, ma anche per l’arte, hanno una valenza limitata nel tempo e collegata sempre a un contesto in cui vengono espressi. Quindi è bello che, come diceva anche il filosofo Thomas Kuhn, vengano ribaltati da nuovi approcci più adatti a capire il mondo con-temporaneo. Questo è un processo infinito, non scientifico, ma empirico-narrativo rispetto al contatto con la realtà. Non vuol dire che certi modelli fossero sbagliati, ma erano adatti a un certo contesto sociale: cambiando il contesto cambiano i modelli. E sempre bene quando esce qualche nuovo punto di vista, in qualsiasi disciplina, che ribalta i modelli precedenti e che mette in discussione l’idea che sia possibile conoscere qualcosa in modo definitivo, totale e atemporale.

Lancini, cos’è il postnarcisismo?

Matteo Lancini – È quello che accennavo prima, il passaggio dalla famiglia tradizionale a quella in cui si parla del bambino d’oro al centro dell’attenzione. Nel postnarcisismo un figlio non è più la proiezione ideale delle nostre aspettative, com’era nel narcisismo; ma gli chiediamo di prendersi carico della nostra identità e di non dire e non provare emozioni che ci farebbero sentire inadeguati e ci costringerebbero a fare la do-manda che nessuno fa più: chi sei tu? Quindi il postnarcisismo non fa esprimere le emozioni e la specificità di un soggetto. Agisce sull’impossibilità di esprimere dei vissuti che costruiscono l’identità, che poi sono alla base del vuoto identitario degli adolescenti odierni, che esplode in forme di violenza o di disperazione. Il narcisismo portava l’ansia prestativa, oggi c’è un’ansia generalizzata; un’angoscia legata al fatto che ti sei dovuto prendere carico del funzionamento di tuo padre, tua madre, dell’insegnante, della società, e intanto dicevano che ti stavano amando troppo.

È quella che chiama ansia del vuoto?

Matteo Lancini – È un vuoto, a quel punto, identitario. La frase che spesso dicono i ragazzi, ahimè, nei fatti di cronaca, è: so che è arrivata l’età in cui lo dovrei dire chi sono, cosa mi piace, cosa voglio, ma non lo so più. Ho continuamente detto «mi piace», che non so più quello che ho detto, perché lo dovevo dire, o quello che sono io. È il grande tema del sentirsi soli in mezzo agli altri.

Anche le relazioni di coppia stanno cambiando. Aldrovandi, lei ha portato il tema della relazione nel suo romanzo. “Il nostro grande niente” (Einaudi Stile libero).

Emanuele Aldrovandi – Nel mio romanzo la relazione è un punto di partenza per porre temi verticali sull’aggrapparsi all’altro per trovare un senso nella vita. L’amore è l’ultimo tentativo, dopo la filosofia, l’arte, la religione e il godimento della vita, che il protagonista mette in atto per evitare di essere sopraffatto dall’assenza di senso. Quindi la relazione nel mio romanzo è vista in chiave esistenziale. Non c’era da parte mia la volontà di farne un’analisi. Quando è uscito il libro, si è parlato del tema delle dinamiche della relazione, però questa è un po’ una deriva che stiamo avendo nel confondere la narrativa con la saggistica, una deriva che porterebbe a parlare di Vladimir Nabokov come di uno che elogia o che critica la pedofilia. Ma non è quello il punto di Lolita. É giusto che al narratori sia concesso di raccontare tematiche esistenziali, senza per forza essere inseriti a livello di metanarrazione. Lasciamo alla narrativa lo spazio di essere conturbante e di non dare risposte. Si cerca di veicolare messaggi anche quando, in realtà, certe opere portano solo domande.

Matteo Lancini – Sintetizzo così iI cambiamento delle relazioni: l’altro è una minaccia alla realizzazione di sé, stiamo in una società dove tutti dicono che c’è la dipendenza affettiva, che ormai sembra la malattia del secolo, e non riconosciamo più che l’essere umano nasce dipendente affettivamente, in un certo senso. Non ci sarà a breve nessun motivo per cui convenga mettersi in coppia, nel senso tradizionale. Questo è frutto di cambiamenti importanti: l’affermazione del sé a fronte della violenza istituzionale, del doversi omologare, come si sia arrivati al fatto che oggi la coppia sia solo una minaccia, è un tema interessante. Penso che la coppia diventerà com’è il mio rapporto di psicoterapia con i ragazzi: una relazione profonda, ma senza un vincolo. La dipendenza affettiva, la tossicità del legame, ci ha invaso la mente. Abbiamo detto ai bambini e alle bambine di essere indi-pendenti e autonomi; abbiamo alimenta-to l’idea che se rinunci a qualcosa per la manutenzione della coppia non va bene perché non realizzi più la tua identità, conta solo il sé. Allora accettiamola, questa novità: la coppia non ha vinto.

Emanuele Aldrovandi – Alla fine questo spettacolo pone delle domande, e credo che diverse persone di diverse età ed estrazione possano immedesimarsi e poi sentirsi leggermente fuori asse rispetto a quello che pensavano.