Condividiamo l’articolo di La Repubblica con l’intervista a Matteo Lancini, 9 aprile 2025
«Vediamo che succede», risponde lo psicoterapeuta che sul palco aveva già dato prova di sentirsi a suo agio quando lo scorso anno ha interpretato il monologo tratto dal suo libro precedente, Sii te stesso a modo mio (sempre edito da Raffaello Cortina Editore). «Sarà anche perché da ragazzo ho frequentato un corso di improvvisazione», scherza. «Ma la verità è che mi piace mettermi in gioco: superato il momento in cui pensi “chi me lo ha fatto fare”, poi scopri che hai aumentato la tua consapevolezza, hai imparato qualcosa di nuovo. E poi fare teatro non è solo un’esperienza professionale, ma anche umana: il pubblico lo vedi, lo senti, durante il primo spettacolo, a Torino, hanno riso, qualcuno si è commosso».
Prodotto da Banca Intesa, lo spettacolo è nato da un’idea di Giulia Cogoli, per ora non sono previste repliche, ma c’è da scommettere che arriveranno presto nuove date.I genitori vengono a vederla anche se lei non propone decaloghi da seguire, ricette da mettere in pratica in poche mosse. Al contrario, lei impone riflessioni, a volte manda in crisi.
“È vero, ma la verità è che io mi identifico con le sofferenze dei genitori e penso che questo loro lo sentano. E sa una cosa? Quando vengono in consulenza e sono disposti a mettersi in discussione, il risultato ha una ricaduta profonda sul miglioramento del figlio e quindi anche sul benessere del padre e della madre. Questo è un fatto, al Minotauro seguiamo moltissimi casi e ci confrontiamo di continuo. Il nostro è un lavoro di squadra”.
Nella prime pagine di Chiamami adulto mette in discussione un approccio molto diffuso, quello secondo cui i ragazzi di oggi abbiano ricevuto troppo affetto, troppa libertà, troppi strumenti tecnologici, troppi videogiochi, troppo accesso ai social… e quindi non abbiano mai imparato a fare i conti con la frustrazione, con i limiti, con la fatica. Ecco perché non sono capaci di gestire le emozioni e talvolta agiscono in disordinato e violento. È davvero tutto falso?
“Io considero la questione da un punto di vista diverso, credo che ai ragazzi stia mancando il riconoscimento e l’ascolto autentico delle loro emozioni da parte di adulti talmente fragili che non sono in grado di legittimarle. In altre parole, presi come siamo dalla necessità di sentirci adeguati di fronte al compito e – diciamolo pure – anche dalla necessità di dare spazio alle nostre esigenze individuali e personali, siamo sempre meno in grado di preoccuparci e occuparci dei nostri figli. Pensiamo di farlo, ma non è così. La verità è che ci facciamo i fatti nostri”.
E così arriviamo all’esempio del cane.
“Un bambino e una mamma camminano sul marciapiede, lui vede un cane da lontano e le dice che ha paura, le chiede di passargli lontano. Lei gli risponde che non c’è motivo di avere paura e lo forza a mantenere la traiettoria. Questo è un esempio banale ma significativo: racconta di come noi genitori non siamo disposti a riconoscere le emozioni dei nostri figli perché non vogliamo avere rotture. Ci raccontiamo che stiamo facendo il loro bene, ma invece stiamo proteggendo noi stessi”.
E quali sono conseguenze?
“Il mancato riconoscimento dei bisogni più autentici e basilari, l’impossibilità di esprimere e vedere accolte da parte dei propri adulti di riferimento, la paura, la tristezza e la rabbia rischiano sempre più spesso di esprimersi in forme di sofferenza durante l’adolescenza. Credo fortemente che i fatti di cronaca che leggiamo ogni settimana sui giornali, l’aumento dei tentativi di suicidio e la violenza contro se stessi siano la conseguenza di questa mancata legittimazione delle emozioni”.
Difficile non pensare alla serie Adolescence, che in questi giorni fa discutere e riflettere. Come si fa a diventare adulti di riferimento? “Noi pensiamo e facciamo troppo, tendiamo ad anticipare ciò di cui hanno bisogno, senza chiedergli cosa desiderano e come si sentono. Bisogna stare”.
Stare?
“Stare. Stare fermi, in ascolto, attenti, concentrati, scomodi, con la sensazione di aver appena ricevuto un pugno nello stomaco, ma stare”.
Nel libro parla di dissociazione.
“Siamo noi adulti ad aver confuso il reale con il virtuale. Diciamo che è colpa dei videogame se i ragazzi sono violenti, ma non ci rendiamo conto che stanno crescendo in un mondo dove sono in corso più di 50 guerre e in un Paese in cui, se ti rubano la borsa, decidi di investire con il tuo Suv il ladro e la gente ti dice che hai fatto bene? Sono questi gli esempi che offrono loro il valore della vita”.
A leggere fin qui, potrebbe sembrare che il suo nuovo libro sia un atto d’accusa, invece è tutt’altro. La mia sensazione è che, forse più di tutti i precedenti, in queste pagine lei i genitori li voglia accompagnare. In fondo è l’unico psicoterapeuta che dice che non dovrebbero delegare troppo alla sua categoria.
“Ma lo penso davvero! Un bravo psicologo non avrà nessuno che gli porta il panettone a Natale. I ragazzi vengono da noi per transitare, gli offriamo una mano per evitare che il dolore che provano si trasformi in patologia, ma l’obiettivo è che non abbiano più bisogno di noi. Lo stesso vale con gli adulti: se un genitore entra in campo, il rischio per il figlio diminuisce notevolmente”.