Dopo il successo di “Adolescence”. Lancini: “La solitudine dei giovani nasce dall’assenza di adulti autentici”
Lo psicologo Matteo Lancini analizza il successo di “Adolescence” e avverte: “I genitori chiedono ai figli di non provare emozioni che li fanno sentire inadeguati”. La vera prevenzione? “Offrire relazioni autentiche”.
La serie “Adolescence” ha totalizzato 66 milioni di visualizzazioni in due settimane, raccontando con forza il disagio di una generazione. Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano, analizza il successo della serie e ne evidenzia il valore sociale ed educativo. Al centro, il tema della fragilità adulta e l’assenza di riferimenti significativi per i ragazzi. Un quadro che riflette anche le sfide della scuola, della famiglia e della società italiana: “Oggi la vera prevenzione è offrire relazioni autentiche”.
“Adolescence” ha avuto un impatto emotivo su pubblico e critica. Cosa spiega una risposta così potente?
Quando una serie televisiva ha un successo così importante – così come, purtroppo, accade con certi fatti di cronaca – significa che intercetta qualcosa di profondo. Il tema del ritiro sociale, della misoginia, di internet sono importanti, ma secondo me non sono il cuore della serie. Il vero centro è che racconta condizioni in cui ogni genitore può pensare di trovarsi.
Non è una storia di trascuratezza familiare: la sorella è inserita, il protagonista va bene a scuola. È una serie che, pur parlando ai ragazzi, ha il suo successo negli adulti.
Perché fa pensare: “Potrebbe succedere anche a noi”.
Dal punto di vista psicologico, che valore ha questo racconto?
Ha una straordinaria capacità di promuovere l’identificazione multipla. Se guardi la serie e non sei completamente fuori di testa, riesci a comprendere, almeno in parte, le ragioni affettive di tutti i protagonisti. Questa capacità di farti sentire vicino a ciascuno è molto potente.
In tutta la serie non compare un solo adulto significativo. Quanto pesa questa assenza?
Pesa moltissimo. In tutte e quattro le puntate non esiste un adulto significativo. I ragazzi in difficoltà si trovano a doversi caricare addosso la fragilità degli adulti. Emblematiche le scene a scuola: mentre si indaga su un omicidio, si parla dell’odore degli adolescenti.
Insegnanti, tutor, psicoterapeuti: figure deboli, non caricaturali, ma non significative. E allora,
davanti ad adulti che non offrono riferimenti, aumenta a dismisura il potere orientativo di internet e delle comunità online.
La Rete oggi sostituisce davvero il ruolo educativo degli adulti?
Non è internet che cattura i ragazzi. È la povertà educativa che li spinge verso la Rete. Se l’offerta adulta è debole, i ragazzi cercano altrove. E internet diventa il riferimento principale per elaborare dolore, rabbia, paura. È la nostra fragilità a spingerli lì.
Scuola e famiglia escono a pezzi dalla serie. È un quadro realistico anche per l’Italia?
Sì, purtroppo. La scuola e la famiglia sono dentro una fragilità enorme. Viviamo in una società complessa, dissociata, piena di modelli contrastanti. Gli adulti si arrabattano per fornire ruoli, ma spesso organizzano dispositivi d’ascolto più utili a se stessi che ai ragazzi. È come se ce la raccontassimo: facciamo corsi, progetti, iniziative per sentirci adeguati. Ma i ragazzi lo percepiscono. E la relazione diventa non autentica, perdendo rilevanza.
È come se i modelli educativi tradizionali non reggessero più. Con quali conseguenze?
Crescono immersi in modelli di identificazione fin dalla nascita. Se gli adulti sono deboli, internet diventa il loro riferimento principale. Quando ero giovane, se l’adulto non era significativo, andavi in strada. Oggi ti rifugi nella Rete, dove cerchi di ridurre la tua solitudine.
Parla spesso di solitudine. I ragazzi di oggi sono davvero così soli?
Sono molto più soli di quanto immaginiamo. Ogni giorno sperimentano solitudine a scuola e in famiglia. Quando ho iniziato a studiare internet, pensavo che generasse solitudine. Oggi vedo che i ragazzi usano internet per provare a ridurla.
È durissimo sentirsi soli tra genitori e insegnanti che dicono di fare tutto per te, ma non ti chiedono mai: “Chi sei?”.
Lei sostiene che il vero problema sia la legittimazione delle emozioni. Può spiegare meglio?
Oggi diciamo di ascoltare i ragazzi più di prima, ma solo se non disturbano la nostra vita. Se un bambino ha paura, rabbia o tristezza, cerchiamo di negarle. Gli diciamo che il cane non fa paura, che il clown non può rattristarlo. Questo annulla la legittimazione delle emozioni primarie, che sono fondamentali per costruire l’identità.
Negare le emozioni primarie ha effetti concreti sulla crescita?
Altroché. Se non legittimi paura, tristezza e rabbia, i ragazzi le radicalizzano altrove, magari in gruppi estremi online. Oggi, la forma più diffusa di difficoltà negli adolescenti maschi è il ritiro dalla scuola e dalla società. Non si esprimono più, si ritirano, e in Rete trovano comunità radicali che li accolgono.
Negli adulti vede differenze tra madri e padri nel modo di affrontare la fragilità educativa?
Oggi non è solo la funzione paterna a essere venuta meno. Si è radicalizzata anche la funzione materna, verso un “plus materno” che nega i bisogni.
Abbiamo costruito una cultura che vede la dipendenza affettiva come una malattia, quando invece l’essere umano nasce dipendente affettivamente.
Se i bisogni primari non sono riconosciuti, si trasformano in disagio.
Nel suo ultimo libro “Chiamami adulto” insiste sulla necessità di “stare nella relazione” con gli adolescenti. È questa oggi l’unica vera prevenzione?
L’unica speranza è la relazione autentica. Solo offrendo relazioni capaci di legittimare chi è l’altro – il figlio, lo studente – possiamo trasmettere valori. Non si tratta di dare sempre ragione ai ragazzi, ma di essere capaci di tollerare emozioni diverse dalle nostre aspettative. Questa è la vera prevenzione oggi.