Condividiamo l’articolo con intervista a Tommaso Zanella a cura di Eleonora Chioda per la rivista Civiltà dei dati – Il trimestrale di divulgazione scientifica e tecnologica di Fondazione Leonardo Ets.
L’INFANZIA SORVEGLIATA SECONDO HAIDT
In nome della sicurezza abbiamo tolto ai più giovani la possibilità di crescere sani. Lo sostiene uno dei saggi più discussi degli ultimi anni.
Troppo protetti quando sono piccoli per crescere bene. Troppo connessi quando sono adolescenti per non compromettere la loro salute mentale. Da tempo gli studiosi indagano l’evoluzione dei modelli educativi e T’impatto della tecnologia sulla salute mentale, ma c’è una data chiave: il 2012. È d’allora che, secondo lo psicologo sociale Jonathan Haidt, docente alla New York University, gli smatphone e i social media hanno cominciato a “riscrive-re” l’infanzia. Risultato? Un’esplosione, tra gli adolescenti, di ansia, depressione, isolamen-
to, paura del confronto, disturbi dell’attenzione e della concentrazione. Tutto raccontato in La generazione ansiosa (Rizzoli), il libro uscito esattamente 12 mesi fa, diventato un bestseller e oggi al centro di un dibattito globale.
«Tutti i miei sforzi al momento sono concentrati a eliminare un’infanzia basata sul telefo-no» spiega Haidt. I numeri secondo lui parlerebbero chiaro: dal 2012, i sintomi di ansia e depressione tra gli adolescenti statunitensi sono cresciuti fino al 90%, mentre il tasso di suicidi nella fascia 10-19 anni è aumentato del 48% entro il 2019 (Centers for Disease Control and Prevention).
Per invertire questa tendenza, Haidt propone quattro regole fondamentali: niente smartphone prima dei 14 anni; niente social media prima dei 16; più gioco libero senza supervisione costante; genitori uniti da norme condivise. «La pressione è reale. Per questo servono soluzioni collettive» spiega. Il suo lavoro ha ispirato il movimento Smartphone Free Childhood, nato in Inghilterra. E l’Australia ha approvato una legge che vieta l’accesso ai social ai minori di 16 anni, con sanzioni pesanti per le piattaforme che non rispetteranno i nuovi limiti: entrerà in vigore alla fine del 2025
“L’Australia sta mostrando al mondo intero come proteggere l’infanzia nell’era digitale” ha
scritto Haidt su X.
Tuttavia le sue interpretazioni sono oggetto di dibattito nella comunità scientifica. La psicologa Candice Odgers, docente alla Uni-versity of California, ha osservato su Nature:
“La ripetuta affermazione che le tecnologie digitali stanno riscrivendo i cervelli dei nostri figli e causando un’epidemia di malattie mentali non è così supportata dalla scienza”. Abbiamo chiesto a Haidt cosa risponde: «|| dibattito con altri psicologi si è concentrato solo su una pic
cola parte delle cause e degli effetti: i principali dati riguardano le “ore al giorno” che un adolescente dichiara di trascorrere sui social me-dia. Non è poco, ma fotografa solo una parte di ciò che accade. Sarebbe ingenuo pensare che il tempo sia l’unico fattore rilevante. Non sappiamo nemmeno quali piattaforme stiano usando i ragazzi. Il nostro gruppo di lavoro sta documentando danni enormi tra decine di milioni di bambini che usano Snapchat e TikTok.
Non è una semplice correlazione tra i dati, cè un rapporto causa-effetto: lo confermano gli stessi dipendenti delle aziende tecnologiche.
Snapchat riceve ogni mese 10.000 segnalazioni di estorsioni sessuali».
I social media non starebbero trasformando solo il mondo dei più giovani, ma anche quello dei genitori. Lenore Skenazy è una giornalista americana, fondatrice del movimento Free-Range Kids, diventata celebre per le sue battaglie a favore dell’autonomia infantile.
«Online c’è un flusso costante di mamme, papà e figli perfetti che è impossibile eguaglia-re. Tu li guardi e ti senti inadeguato, in difetto», spiega Skenazy. Per rendersene conto basta un esempio: «La scorsa settimana ho ricevuto une-mail che mi offriva consigli per capire se mio figlio fosse pronto per un pigiama party. E, nel caso lo fosse, come prepararlo. Mi proponevano una guida di nove pagine. Nessun genitore ha bisogno di nove pagine di un esperto per decidere se e quando il proprio figlio può partecipare a una festa in pigiama. I social network rendono ogni decisione complicata e carica di conseguenze disastrose». Ma allora sarebbe sufficiente disconnettersi tutti per risolvere il problema? No. Non è d’accordo Tommaso Zanella, psicoterapeuta e vicepresidente della Fondazione Minotauro: «Attribuire tutte le fragilità dei ragazzi all’uso dei social media sarebbe un’analisi semplicistica di un tema più complesso. Rischiamo di spostare il problema all’esterno, senza affrontare la nostra responsabilità di adulti».
Rispetto al passato si muove una nuova generazione di genitori, madri e padri più presenti, ma con un grande limite: «Presenti sì, ma disposti ad ascoltare e accogliere solo verità parziali, quelle che fanno sentire l’adulto adeguato. Mentre il dolore autentico dei ragazzi viene silenziato o ignorato». E quando emergono emozioni scomode, di fronte alla complessità emotiva dei ragazzi, gli adulti reagiscono con un iper-controllo. «L’ansia si traduce in sorveglianza costante. Monitorano il Gps, mappano, leggono chat, controllano ogni mossa, vietano. Tutto questo serve solo a placare la propria angoscia ma non aiuta davvero i ragazzi a crescere».
La soluzione? Non bastano i divieti. Zanella mette in discussione la proposta di Haidt:
«Non basta fissare un’età per l’accesso a smartphone e social. Ogni ragazzo ha bisogno di un adulto capace di sintonizzarsi sulla sua storia e sulle sue emozioni. Dentro hanno un vuoto profondo, un dolore che sentono di dover eliminare perché non accettabile dai genitori». Un tema potente anche al centro di Adolescence, la serie su Netflix che ha colpito tutti per la sua capacità di raccontare le fragilità emotive dei ragazzi. «Bisogna rimettere al centro lo strumento più antico di sempre, quello della relazione autentica. Dove incontriamo l’altro senza troppi filtri».
Se per Tommaso Zanella il nodo è ristabilire una relazione autentica, capace di accogliere le emozioni più difficili senza trasformarle in oggetto di controllo, Jonathan Haidt spinge il discorso un passo oltre con la sua terza re-gola: “più gioco libero senza supervisione co-stante”.
E non si parla solo di gioco libero, ma anche di risky play. Mariana Brussoni, professoressa alla University of British Columbia di Vancouver è tra le massime esperte mondiali sul tema. Dirige lo Human Early Learning Par-tnership, un centro di ricerca interdisciplinare.
«I giochi rischiosi sono fondamentali per crescere sani. I nostri studi hanno dimostrato che, giocando all’aperto senza il controllo dei genitori e sperimentando attività pericolose, si sviluppano capacità fisiche, cognitive e sociali
Cosa si intende per giochi rischiosi? Secondo Ellen Beate Hansen Sandseter, scienziata norvegese che per prima li ha definiti, sono giochi emozionanti in cui i bambini si imbattono nell’incertezza e rischiano di farsi male. Come arrampicarsi, correre in bicicletta, fare la lotta o esplorare», spiega Brussoni.
«L’incertezza fa parte della vita. Se non impariamo ad affrontare situazioni inaspettate da piccoli, è più difficile farlo da adulti. Attraverso il gioco rischioso costruiamo la nostra autostima, impariamo a gestire le relazioni con i coetanei, sperimentiamo gli alti e bassi della vita e scopriamo che fallire non è un dramma. Non facciamo alcun favore ai bambini quando li proteggiamo da queste espe-rienze».
Eppure, facciamo di tutto per evitarle. Tra il 1975 e il 2015, secondo Killian Mullan, il gioco libero all’aperto tra i bambini del Regno Unito è diminuito del 29,4%, mentre le attività strutturate o al computer sono aumentate del 22,4%.
«Che cosa è cambiato? Un mondo iper competitivo e la falsa percezione che sia diventato tutto più pericoloso» aggiunge Brus-soni. «Nel mio lavoro esamino statistiche e dati: la probabilità di infortuni gravi è rarissi-ma, e i bambini rischiano più facendo sport che nel gioco libero».
E lo stesso spirito di fiducia che ha spinto Lenore Skenazy a lasciare andare il figlio di nove anni a scuola da solo. «Prendiamo sempre la metropolitana, era un compito molto familiare per lui. Ci aveva chiesto di provarci.
Era pronto, quindi lo siamo stati anche noi».
La storia raccontata sul New York Sun ha scatenato un vero e proprio caso mediatico.
«Scrivo storie ogni giorno, mai avrei immaginato che quella vicenda avrebbe acceso un dibattito mondiale sulla libertà dei bambini».
Oggi Skenazy guida lorganizzazione Let Grow e invita i genitori a «restituire ai figli il diritto di esplorare il mondo. Non possiamo trattare i nostri figli come oggetti preziosi da ammirare, esporre, proteggere e trasportare. Sono persone e hanno bisogno di tempo per esserlo».
E appena rientrata dal Ted di Vancouver dove ha ricordato la sua visione: «La maggior parte delle persone è buona. Dare a tutti il beneficio del dubbio non è solo divertente: è intelligente e saggio».