Condividiamo l’articolo di Repubblica scritto da Stefania Medetti in cui interviene Loredana Cirillo.
“A 15 anni mio figlio è diventato svogliato, maleducato, dice che andare bene a scuola è da sfigati”
I voti di Marco sono peggiorati, risponde male ai professori. E ha spiegato ai genitori che andare bene a scuola vuol dire essere esclusi dal gruppo di studenti più popolari. “Ecco come siamo riusciti ad aiutarlo a non distruggere il suo futuro” dice Chiara, sua mamma. E il parere della psicologa
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L’arrivo della pubertà ha un impatto forte sui nostri figli e spesso ci troviamo a non riconoscerli più. Proprio come è accaduto a Chiara (il nome è di fantasia per garantire la privacy di suo figlio) e a suo marito. Questa mamma ha scritto a teentalk@repubblica.it per raccontare una situazione comune a molte famiglie, quella di un adolescente che rifiuta lo studio per apparire “forte” agli occhi dei compagni di classe e farsi accettare dal gruppo. Ma anche per condividere la strada che assieme ai professori di suoi figlio hanno scelto di intraprendere per aiutarlo a non rovinarsi la vita. Ecco il racconto di Chiara e a seguire il parere dell’esperta che abbiamo interpellato.
“La verità, inaspettata, è arrivata con i voti meno che brillanti del primo quadrimestre: “Andare bene a scuola è da sfigati, ci ha detto mio figlio”, racconta ancora incredula Chiara, professionista milanese e mamma di un ragazzo quindicenne. Brillante studente alle elementari, il figlio si è trasformato in una persona svogliata e incostante. In famiglia, sono stati anni di dubbi, malumori, tentativi di dialogo, punizioni, richieste di spiegazioni, fino a che Marco non ha spiegato ai genitori il trade-off della sua generazione: andare bene a scuola vuol dire essere esclusi dal gruppo di studenti più popolari. Un particolare che mette in ordine i pezzi di un puzzle che i genitori finora non erano riusciti a comporre: «Marco è sempre andato bene a scuola, i problemi sono cominciati con l’inizio della pubertà, attorno ai dodici anni, quando i suoi voti hanno iniziato a peggiorare”. Anche il comportamento è cambiato: “I professori dicono che non partecipa, segue svogliatamente, risponde in modo maleducato, un profilo che non corrisponde al ragazzo che noi conosciamo”.
Un rito di iniziazione
Chiara e suo marito hanno portato al figlio l’esempio della sorella maggiore, oggi all’università, che è sempre andata bene a scuola senza che questo incidesse negativamente sulla sua popolarità. “Ma secondo nostro figlio ‘Per i maschi è diverso’. È come se esistesse una tendenza all’omologazione verso il basso, un riallineamento verso la mediocrità, come dico io. C’è un desiderio di non farsi notare, per questo non intervengono in classe, non partecipano”. Rispettati questi “parametri”, scatta l’accettazione da parte del gruppo: “Sembra quasi un rito di iniziazione, rifiutarsi di fare bene è un modo per dimostrare carattere”. Un paradosso, considerato che l’idea dell’eccellenza è ben presente nella mente degli adolescenti, basta guardare all’impegno che mettono e all’importanza che danno ai loro risultati sportivi: giocare bene a calcio è un biglietto da visita che conta tantissimo. Per questo non si risparmiano, si allenano, cercando di migliorare, vogliono entrare a far parte di una squadra. Lo sport catalizza le loro energie e il loro interesse.
L’unica cosa che conta è lo stile
Le preoccupazioni per il futuro? “Mi pare che non esistano – prosegue Chiara -. Gli adolescenti pensano all’immediato, non hanno la consapevolezza del fatto che in questi anni stanno mettendo le basi del loro domani. Al massimo, guardano alla fine dell’anno scolastico”. Tutto quello che conta, insomma, è lo stile. “Ho scoperto che questa etichetta comprende una serie di ambiti: come ti presenti, come cammini, come ti vesti, cosa fai. La personalità, le capacità, gli interessi non contano quasi nulla, conta di più il fatto di avere tutti le stesse scarpe”. Insomma, è come se la bussola delle dinamiche del gruppo misurasse solo quello che appare sulla superficie: “Hanno paura di essere visti come quelli che hanno un obiettivo. Assurdo da dire, ma il successo fa paura, mentre il fallimento, è quasi una dimensione confortante”.
Un problema di molti
“Mio figlio non è un caso isolato, c’è una perdita di potenziale pazzesca in queste generazioni”. Il meccanismo si rinforza nella relazione con l’autorità, gli insegnanti e gli adulti in generale. Quasi come se dovessero provare la loro mascolinità, i ragazzi resistono agli insegnanti. “Magari, c’è difficoltà a creare interesse per le materie, ma molti insegnanti cercano di coinvolgere, motivare, stimolare lo studente. E più lo fanno, più lo studente si irrigidisce”. Questo comportamento è un segnale rivolto ai compagni, un modo per dimostrare la propria forza, il fatto di non avere paura. “Mio figlio me lo ha detto, se mi fanno una domanda rispondo, ma non intervengo. Non voglio mettermi in luce”.
Un aiuto da parte dei professori
La soluzione, nel caso di Marco, è stata una richiesta di aiuto ai professori da parte dei genitori e un supporto più ravvicinato da parte degli insegnanti per lo studente: “Dopo anni in cui nulla sembrava funzionare, in cui ho dovuto accollarmi il compito di seguirlo a casa per assicurarmi che non rimanesse troppo indietro, i professori hanno proposto un’idea: valutare al termine di ogni lezione il livello di partecipazione e comunicazione di nostro figlio. Una cosa semplice, un’indicazione su una scheda del livello di partecipazione – buono, medio o scarso – che Marco ci deve mostrare ogni giorno”. Un modo per “marcare stretto” il comportamento e rimettere lo studente sui binari. Anche se all’inizio l’idea è stata accolta con qualche resistenza da parte del figlio che non voleva essere diverso dai propri compagni, l’idea ha funzionato. “La valutazione quotidiana ha agito come un rinforzo positivo. Marco ha iniziato a dimostrare maggior senso di responsabilità. Addirittura, è arrivato a chiedere spiegazioni delle valutazioni che non corrispondevano alla sua percezione. Ma quanti sono i ragazzi che non possono contare su questa soluzione e si perdono per strada?”
Il parere di Loredana Cirillo, psicologa e psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro
“Il caso di Marco e della sua famiglia potrebbe essere paradigmatico della transizione psichica che avviene dall’infanzia all’adolescenza”, commenta la dottoressa Loredana Cirillo, psicologa e psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro, autrice del saggio Soffrire di adolescenza – Il dolore muto di una generazione (Raffaello Cortina Editore). “In Marco potrebbe essere presente uno scontro tra le istanze del Sé infantile, cioè tra l’immagine di sé che va bene a scuola, in linea con le aspettative del mondo degli adulti e il Sé adolescente che ha compiti e bisogni in antitesi. Il Sé adolescente, infatti, deve “dismettere” il Sé infantile, essere riconosciuto dal suo gruppo di pari. Questo compito, naturalmente, si assolve attraverso un atto di rottura verso gli adulti, la scuola e l’aderenza alle aspettative. Rifiutare la scuola, disinvestire nel ruolo di studente potrebbero rappresentare le modalità con cui si esprime il bisogno di soggettivarsi, di trovare il proprio posto nel mondo, anche se in modo disfunzionale per la crescita. Marco è stato fortunato, perché gli adulti che lo circondano si sono attivati, non lo hanno mortificato. Hanno utilizzato il meccanismo della valutazione non in maniera punitiva, ma come uno strumento per aiutarlo a riflettere e a riconoscere quotidianamente il suo impegno e il suo valore.
La scuola ideale dovrebbe puntare a responsabilizzare gli studenti, a non infantilizzarli. Il problema è che questo avviene raramente o, addirittura, non avviene. L’esito è il disinteresse diffuso che gli studenti mostrano nei confronti dello studio e della scuola, un’istituzione che spesso non risponde adeguatamente ai cambiamenti intervenuti nei ragazzi. Insegnamento e apprendimento dipendono prima di tutto dalla qualità della relazione che si instaura con gli studenti. Andare male a scuola, tuttavia, oggi spesso testimonia una sofferenza più ampia che coinvolge tutti i compiti di sviluppo adolescenziali. Spesso i ragazzi sperimentano un vuoto identitario, l’assenza di senso e di speranza verso il presente e il futuro che rende molto difficile investire in qualsiasi ambito dell’esistenza. Pensare di aiutarli attraverso la punizione, la mortificazione, il brutto voto o la bocciatura è contro ogni logica relazionale, emotiva, pedagogica e psicologica. Questo caso offre uno spunto di riflessione importante per gli adulti perché aiuta a leggere tra le righe dei messaggi che ci inviano i ragazzi. Non è vero, infatti, che agli adolescenti non importi dei risultati scolastici, il loro disinteresse, il fatto di considerare l’andare male a scuola come qualcosa di cool rappresenta solo una difesa. Il disinvestimento, infatti, è un modo per non soffrire, per non scontrarsi direttamente con il proprio senso di inadeguatezza.