Riportiamo l’intervista di Giulio Brotti al prof. Gustavo Pietropolli Charmet per l’Eco di Bergamo sul ruolo della scuola per gli adolescenti in epoca di pandemia.
La notizia più recente è quella della riapertura delle scuole, nelle «zone rosse», ma solo fino alla prima media: rimane invece incerto che cosa succederà da qui a giugno per gli altri alunni; resta anche da valutare quali effetti, non solo in termini di mancati apprendimenti, avrà alla fine l’andamento sincopato (con chiusure, riaperture, riaperture a metà regime) del sistema scolastico nel nostro Paese. Abbiamo chiesto a Gustavo Pietropolli Charmet – psichiatra e psicoterapeuta di fama internazionale – di aiutarci a riflettere su questo punto, ma anche di indicarci come gli adulti e gli adolescenti potrebbero unirsi per far fronte al disagio, alla paura del futuro, alla tentazione di abbandonarsi al corso degli eventi. Lo scorso anno, con l’editore Solferino, Pietropolli Charmet aveva pubblicato «Il motore del mondo. Come sono cambiati i sentimenti». Una delle idee portanti di questo libro è che per le nuove
generazioni «sperare » risulti più difficile che in passato: con il calo delle pratiche religiose e tramontate le grandi utopie rivoluzionarie, «è chiaro che, se un ragazzo vuole sperare, deve farlo a titolo personale e senza alcuna chance di condividere la sua speranza con grandi numeri di coetanei, a meno che non si tratti del campionato del mondo di calcio». «Ciò significa – aggiunge Pietropolli Charmet – che la speranza è ridiventata una virtù molto individuale, e che la possibilità di imbattersi in ragazzi disperati è elevata».
Professore, lei ritiene che questa eventualità sia divenuta più frequente, con la sospensione della «scuola in presenza»? «Mi sembra di sì. Una dei supporti emotivi principali, per i ragazzi, è costituito proprio dalla scuola. Se questa barcolla e non svolge più la funzione di conferire un’identità, se non aiuta più a progettare un futuro e nemmeno a mettere ordine nei sentimenti, c’è il rischio che anche la capacità di sperare si indebolisca. La speranza è basata sulla fiducia che si dia un tempo chiamato “futuro” in cui il desiderio potrà realizzarsi; e la scuola tradizionalmente tende ad accreditarsi presso i ragazzi come un’istituzione in grado di offrire dei futuri possibili, di stanare le vocazioni dei singoli, di valorizzare le loro competenze. Così, con la chiusura delle scuole è aumentato tra i ragazzi il sentimento della vergogna, come spesso avviene in chi si trova in cassa integrazione o disoccupato o non disponga comunque di una difesa istituzionale chi gli conferisca un ruolo socialmente definito, un valore riconosciuto, una visibilità pubblica. Alcuni ragazzi, magari, possono credere di aver avuto anche dei vantaggi, per il fatto di restare a casa da scuola. Però, in generale, la situazione è preoccupante».
Tornando al sentimento della vergogna: lei sostiene che già nell’era pre-Covid fosse assai diffuso tra gli adolescenti. «La vergogna è la paura di non contare niente, di risultare invisibili agli occhi degli altri, di non avere più un ruolo nella comunità in cui si vive. Io penso che quantomeno per una frangia importante del mondo giovanile l’essere rimasti senza la protezione normalmente offerta dalla scuola stia pesando molto. Per la verità l’adolescente in quanto tale può trovare anche al di fuori dell’ambito scolastico dei punti di riferimento: c’è il gruppo dei pari – anche se gli incontri con gli amici in questo periodo dovrebbero essere limitati -, ci sono altre risorse. Il ruolo del ragazzo- studente, però, presuppone un contenitore istituzionale, che consenta di organizzare il proprio tempo, di trovare una collocazione nella gerarchia sociale. Che cosa succede, se questo contenitore viene meno o funziona a tempi alterni? Il nervosismo, la demotivazione, la malinconia che in questo periodo stiamo notando in molti ragazzi sono collegate non tanto all’impossibilità di vedere quotidianamente i compagni di classe, quanto al fatto stesso di non poter più “entrare a scuola”, di aver visto incrinarsi il proprio status di studenti».
In questo «tempo sospeso» ci si annoia: però è una noia diversa da quella di chi deve aspettare alla pensilina un autobus in ritardo. Si esprime nella fatica di alzarsi dal letto al mattino, di prendersi cura del proprio aspetto…
«La noia è davvero una brutta bestia per i ragazzi, soprattutto per quelli di oggi, perché gli adolescenti di un tempo erano abituati ad annoiarsi; ora invece sono soliti condurre una vita molto attiva, con un’agenda di impegni rispetto alla quale io mi potrei considerare un nullafacente. In questi mesi, all’impossibilità di frequentare la scuola si sono aggiunte altre limitazioni, relative agli spostamenti sul territorio, alla possibilità di assistere a un concerto, di andare in una palestra. Ora, un ragazzo annoiato o triste non rimane inerte, con le mani in mano: cerca di fare qualcosa che spera possa liberarlo da questo stato d’animo. Purtroppo tale tentativo può anche andare nella direzione di quelle che noi adulti definiamo “forme morbose”, “malattie”: c’è il rischio di scivolare verso disturbi della condotta alimentare, comportamenti autolesivi o atteggiamenti di autosegregazione per cui non si esce più dalla propria camera e si scambia il giorno con la notte ».
Ci sono anche dei segnali in senso contrario? Prove di una capacità di reazione vitale a quanto sta succedendo?
«Qua e là, a tratti, mi pare di averle notate. Non potendo esprimere le loro energie all’esterno, alcuni ragazzi le hanno esercitate in chiave introspettiva: hanno cercato ispirazione
dentro di sé o in Internet, nei social network. Hanno dato sfogo, in qualche modo, alla loro creatività. Queste esperienze potrebbero forse compensare in parte ciò che è andato perduto».
Sulla stampa, nelle scorse settimane, sono apparse le foto di assembramenti di giovani non solo alla Darsena dei Navigli, a Milano, ma anche a Marsiglia – per il «Carnaval de La Plaine» – o a Miami, dove erano convenuti per festeggiare lo «Spring Break». Queste trasgressioni di massa, pur non veicolando esattamente un messaggio «politico », hanno una forma eclatante, provocatoria.
«Ho l’impressione però che riguardino dei giovani oltre una certa soglia di età, più che gli adolescenti in senso proprio. L’insofferenza di questi ultimi si esprime semmai in certe scorrerie avvenute in diverse città italiane, in cui si sono simulate delle “battaglie di strada”, con molto fragore ma finora – mi pare – senza lasciare sul campo né morti né feriti: non appena sopraggiunge la polizia, le ostilità cessano e i contendenti si danno alla fuga. Credo che le misure di limitazione delle libertà personali da molti ragazzi non siano state comprese e che siano perciò state percepite come un castigo immotivato.
L’unica forma di punizione ancora praticata dai genitori nei confronti dei figli adolescenti consiste proprio nella formula: “Stasera tu non esci”. Quando però un ragazzo ritiene di non aver mancato in nulla, di non aver violato le regole, questo confinamento è percepito inevitabilmente come un sopruso. A me pare che, mentre agli adulti si è ripetuto ossessivamente che occorreva rispettare le misure di distanziamento sociale, sia finora mancata una voce autorevole in grado di spiegare agli adolescenti che cosa sta succedendo in questo periodo, in cui in Italia si è superata la cifra di 100mila morti per Covid-19 e in tutto il pianeta ci si avvicina ai 3 milioni. Ai ragazzi si sarebbe dovuto dire che c’era bisogno di una loro mobilitazione, di una loro partecipazione attiva a uno sforzo comune per contenere i contagi e per tutelare le persone più fragili; e aggiungerei che di questa partecipazione ci sarà bisogno anche in futuro, per cercare di ricostruire sulle macerie lasciate dal passaggio della pandemia. Perché si possa fare questo discorso, tuttavia, gli adulti dovrebbero smetterla di pensare che agli adolescenti non si possa parlare della morte, che affrontare con loro questo tema sia inopportuno e pericoloso».
Non è così?
«No, non è così: si dovrebbe spiegare ai ragazzi quale livello di intelligenza micidiale abbia questo virus, quale minaccia costituisca, con le sue varianti, per la nostra civiltà».
Nello scorso settembre, con toni abbastanza enfatici, si era annunciato che la scuola «avrebbe riaperto in sicurezza»: probabilmente, si era convinti che la pandemia fosse ormai alle nostre spalle. Sappiamo com’è andata: soprattutto nei ragazzi più sensibili, questo non può essere stato percepito come un tradimento della loro fiducia? Le pongo anche un’altra domanda: visto che sognare non è vietato, immaginiamo che a fine aprile o a maggio anche gli alunni delle superiori possano rientrare in classe e che quest’anno scolastico si concluda in modo un po’ meno triste di quello precedente; come converrebbe sfruttare, nel caso, le ultime settimane di lezioni in presenza? «Penso anch’io che molti adolescenti
abbiano provato una forte disillusione. Era stato loro detto che sarebbero tornati a scuola e invece questa è stata di nuovo chiusa, o è rimasta socchiusa, o aperta a metà. Nell’ipotesi a cui lei accenna – che si riesca a terminare l’anno in presenza -, mi auguro che la scuola, come luogo preposto all’elaborazione culturale dei problemi sociali, dedichi spazio a una riflessione seria su quanto è accaduto e sulle sfide che attendono tutti noi, adulti e ragazzi, nel prossimo futuro. Lo si dovrebbe fare senza abbellimenti, senza blandizie. Ripeto,
non si può chiamare a un’assunzione collettiva di responsabilità, a un impegno comune, se non si afferma chiaramente che siamo in pericolo: la difesa della vita presuppone la consapevolezza del potere della sua naturale nemica, la morte».