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Riportiamo il commento di Elena Riva al film “Agnus Dei” di A. Fontaine, proposto in occasione della serata dello scorso 18 gennaio 2017 organizzata dal Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti.

 

Agnus Dei, di Anne Fontaine, è un film dai dialoghi scarni ed essenziali, fatti di “parole come pietre”.

La narrazione è affidata agli sguardi intensi e ai primi piani sofferti, che trasformano una vicenda che si potrebbe prestare a facili letture ideologiche in un’opera il cui maggior pregio è proprio il carattere radicalmente anti-ideologico.

In una Polonia devastata dalla guerra, le fredde e desolate distese di neve e i claustrofobici ambienti claustrali propongono un costante, reciproco rimando fra mondo interno e panorami esterni.

Il racconto si apre sulla scena corale di un rito religioso celebrato da suore che si muovono furtive fra le celle e i corridoi del convento, apparentemente imperturbabili a ciò che accade all’esterno delle sue mura e – scopriremo – all’interno dei loro corpi violati. L’abito monacale e la sincronia corale dei gesti e dei movimenti rimarcano l’indifferenziazione dei corpi, abusati dalla violenza dei soldati e prigionieri di un inflessibile sistema morale che impone il segreto e la negazione. L’urlo di una suora in preda ai dolori del parto squarcia questo silenzio e fa crollare la barriera del diniego, avviando un processo di elaborazione e riparazione reso possibile dal rapporto che si crea fra Matilde, il medico francese della Croce Rossa chiamato in soccorso, e Maria, la suora polacca che si fa carico del dramma.

Le due protagoniste, così come la novizia che per prima viola il silenzio avventurandosi nell’innevata distesa solitaria per chiedere aiuto, infrangono le norme dell’istituzione militare e di quella monastica cui appartengono per proteggere la vita.

Il film evita accuratamente scissioni ideologiche fra buoni e cattivi, maschi e femmine, amici e nemici, consentendo d’identificarsi con le opposte ragioni di ciascuno.

Lo “sguardo femminile”, insistentemente sottolineato dalla critica, non riguarda l’appartenenza di genere dei personaggi o della regista, ma dall’orientamento valoriale della narrazione, che non è necessariamente prerogativa della femminilità biologica, come dimostrano le opposte figure della madre badessa e del medico ebreo; è proprio quest’ultimo, infatti, l’unico personaggio maschile del film, a verbalizzare questo punto di vista, rilevando il paradosso di trovarsi, lui ebreo, a far nascere i figli delle suore polacche e dei soldati sovietici.

Agnus dei non è, dunque, solo un film di denuncia dell’utilizzo dello stupro come arma di guerra nei conflitti fra i popoli e in quelli privati fra gli uomini e le donne, ma è soprattutto una toccante denuncia della violenza dell’ideologia, che sommando crimine a crimine, trasforma le vittime in colpevoli e ostacola ogni possibile riparazione.

Il divieto di prendersi cura dei corpi violati, cui è negato ogni contatto, tattile, visivo ed emotivo, è l’esito di una rappresentazione ideologica del corpo femminile come fonte originaria di ogni colpa e vergogna, e per questo esposto a essere violato non solo dai responsabili del crimine, ma dalla comunità intera; è quanto regolarmente accade alle vittime di violenze sessuali, nelle tragedie collettive degli scenari di guerra (oggi alle donne africane che, liberate dalla schiavitù dei guerriglieri islamici, sono ripudiate dalle famiglie d’origine) e nei drammi privati che non vengono denunciati per timore del biasimo e del sospetto che sempre circonda le vittime di reati sessuali. In nome di quest’aberrante logica affettiva, la madre badessa impone il segreto alle consorelle, fino alla conseguenza estrema di sottrarre i neonati alle madri destinandoli a morte sicura.

È l’onnipotenza ideologica a suggerire il più efferato dei crimini, pur di preservare la comunità monastica dal disonore e le giovani suore dalla colpa che deriva dai loro corpi per definizione corrotti.  In nome della fede si può così uccidere e morire, abbandonare in un bosco innevato il fragilissimo corpo di un neonato e salvarne l’anima con il battesimo, o lasciarsi morire rifiutando le cure per la sifilide contratta con lo stupro.

Franco Fornari, lo psicoanalista che più si è occupato di psicopatologia della guerra e dei conflitti, definiva “logica masochistica della specie” l’attitudine umana a sacrificare la vita in difesa dei propri valori, che militarizzandosi gli uni contro gli altri si trasformano in ideologie.

A questa logica mortifera Matilde e Maria si sottraggono in difesa della vita, delle relazioni, dei legami.

Il film è ricco di cammei che, in un costante rimando fra piani diversi, evidenziano il carattere anti-vitale della follia ideologica, la cui prima vittima è, non a caso, il corpo femminile, la fonte stessa della vita. Se l’assolutizzazione del voto di castità vieta di prendersi cura dei corpi abusati per non violarne il pudore, la gravidanza inconsapevole di una novizia che mantiene un’estraneità psicotica verso ciò che accade dentro di lei, prima, durante e dopo il parto, è la manifestazione estrema di questa forclusione del corpo.

Grazie alla relazione con Matilde e all’autorizzazione di Maria, le altre suore, ognuna attraverso un proprio personale percorso, arrivano a riconoscere la realtà del corpo e della gravidanza. Il film mostra in modo mirabile, senza commentarlo a parole ma attraverso i gesti e le posture, come queste giovani donne acquisiscano progressivamente confidenza con il loro corpo e imparino a “toccare” e contenere fra le braccia i neonati; quando, infine, un piccolo gruppo di suore collabora attivamente a un parto, assistiamo a una sorta di celebrazione corale del rito della nascita, assai più vitale e festosa dei rituali monastici.

Altrettanto anti-ideologica é l’attenzione con cui la regista evita di affidare all’“istinto materno” la funzione salvifica: una novizia sceglie di abbandonare il convento per essere madre, un’altra torna nel mondo, ma affida il neonato alle cure delle consorelle; la suora suicida non decide di morire quando le viene sottratto il neonato appena partorito, ma quando perde la bambina che le è stata affidata e con cui ha stabilito un legame. La funzione materna non è descritta come espressione di un istinto, ma come orientamento etico e valoriale a prendersi cura degli altri. Quest’orientamento accomuna prima di tutto le protagoniste, Matilde e Maria, che non sono biologicamente madri, ma hanno scelto in modo consapevole quale vita condurre e quali valori difendere, non senza conflitti interni, come indicano l’ambivalenza di Matilde nei confronti del corteggiamento del collega e le considerazioni di Maria sui dubbi e i tormenti della fede. Quest’ultima confida di sentirsi “meno sfortunata” delle consorelle per aver avuto occasione di conoscere gli uomini prima dell’episodio dello stupro, il che le consente di non assimilare la virilità alla violenza e la femminilità alla colpa.

L’abito elegante e “civettuolo” che Maria dona a Matilde è il segno di una femminilità non rifiutata o negata in nome di un’adesione fideistica acritica e totalizzante; le due donne non indossano la divisa monastica e militare per costrizione, ma per scelta: una scelta che comporta dubbi e rinunce, ma che non rinnegano, neppure quando trasgrediscono le regole dell’istituzione cui appartengono: “Non mi sono pentita”, afferma Matilde. Non è, però, la fede religiosa dell’una o il credo comunista dell’altra, ideologicamente contrapposti, a far da bussola ai loro comportamenti, ma la cura della vita e dei legami, la pre-occupazione per le donne e per i bambini per cui si sentono responsabili, che consente di trovare soluzioni riparative.

Per questo il finale del film non è un ottimistico “happy end”, ma l’esito di un percorso di costruzione identitaria fondato sulla consapevolezza, l’autonomia, il senso di responsabilità e la capacità di prendersi cura di sé e degli altri, sottolineato dalla contrapposizione scenica fra l’immagine della madre badessa sul letto di morte e la festosa foto di gruppo delle monache circondate dai loro figli, naturali e simbolici.