Usare meno il telefonino, spegnerlo prima di andare a dormire, parlare a tavola invece di digitare compulsivamente. Sono alcune delle raccomandazioni che sempre più spesso gli adulti, allarmati, muovono agli adolescenti: da un lato, in quanto nati con lo smartphone, si informano, si esprimono, giocano e si incontrano nelle nuove piazze digitali. Dall’altro possono nascondersi dietro a uno schermo ed essere più soggetti alla dipendenza. Il tema è attuale, complesso. E non si affronta limitando o demonizzando l’uso delle nuove tecnologie. Ne sono convinti Massimo Sideri, editorialista del Corriere della Sera e responsabile editoriale del «Corriere Innovazione», e Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta, presidente della fondazione Minotauro e dell’Associazione dei gruppi italiani di psicoterapia psicoanalitica dell’adolescenza, protagonisti dell’incontro «Noi, algoritmi. Emozioni, relazioni e apprendimento nell’era digitale», organizzato in occasione di BergamoScienza dalla Fondazione Corriere della Sera e Amici di scuola di Esselunga, e rivolto a circa 400 studenti delle scuole superiori di città e provincia.
«Qualcuno ha detto che gli algoritmi sono opinioni moderne mascherate da numeri — esordisce il giornalista —. Si presentano come matematica, quindi come qualcosa di scientifico, ma in realtà potrebbero nascondere aspetti soggettivi. Per questo bisogna imparare a riconoscerli, a usarli al meglio». Il compito, che riguarda in generale le nuove tecnologie, spetta ai giovani, ma ancora prima agli adulti che devono garantirne la crescita, la formazione. La scuola, «se non vuole risultare obsoleta», deve portare l’innovazione nei percorsi di apprendimento e, allo stesso tempo, deve «preparare gli alunni ai lavori di domani che inevitabilmente saranno collegati alla tecnologia», puntualizza Sideri. «Il punto non è usare fra i banchi lo smartphone o l’abbecedario e, su questa scelta, dare inizio a una battaglia ideologica — aggiunge lo psicologo Lancini —, ma far sì che la scuola possa continuare ad essere un luogo dove i ragazzi ricevono le risorse culturali utili per la costruzione del loro futuro».
Se l’istruzione deve adeguarsi, i genitori devono fare mea culpa. La solitudine della cosiddetta «generazione iperconnessa» è anche frutto «di un contesto sociale che ha chiuso piazze, giardini, bar, e ha spinto i giovani, davanti all’angoscia degli adulti, a costruirsi le relazioni in una stanza». Sono sempre negative? «In 15 anni di studio sui ragazzi che si ritirano in casa e magari diventano dipendenti da internet — rivela Lancini — mi sono reso conto che, a volte, gli amici con i quali prima avevano costruito battaglie virtuali, poi sono diventati veri. Dobbiamo andare al di là degli stereotipi: anche in rete possono nascere relazioni profonde ed emotivamente importanti». Molti studenti annuiscono. Uno alza la mano e chiede: «È vero che i videogiochi invitano alla violenza?». «Non voglio banalizzare la questione — conclude lo psicologo —, ma ritengo che siano individuati troppo spesso come la causa. Credo che si debbano analizzare con attenzione sia gli studi che affermano che la aumentano, sia quelli che dicono che, il fatto di averla simboleggiata, e quindi agita, ha un effetto contrario».