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Condividiamo l’intervista di Sabina Pignataro ad Antonio Piotti per Vanity Fair.

Stare nella complessità è il compito più difficile. Non giudicare, non condannare. Capire. Provare, nel limite dell’umano, a mettersi nei panni dell’altro. Senza perdere la lucidità morale, senza dimenticare il bene. E il male. Anche quando i confini sono instabili. Anzi, forse soprattutto quando lo sono.

I media  hanno pubblicato le immagini e gli audio del primo colloquio tra Nicola Turetta al figlio Filippo nel carcere di Verona dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. Parole pubblicate dal settimanale Giallo. «Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza. Non sei un terrorista. Devi farti forza. Non sei l’unico. Ci sono stati parecchi altri. Però ti devi laureare…» sarebbero state le parole dette dal padre.

Il contesto di quella conversazione è importante. Siamo al 3 dicembre quando, per la prima volta dopo il delitto e dopo il  tentativo di fuga, i genitori incontrano dietro le sbarre il figlio assassino.

«Prima di incontrare il ragazzo, i due genitori hanno parlato con uno psicologo», racconta Antonio Piotti, psicoterapeuta del Minotauro di Milano. «Durante questa conversazione, precedente a quella del carcere, possiamo supporre che, tra gli argomenti, ci fosse da decidere cosa sarebbe stato opportuno dire a Filippo nel momento fatidico del primo incontro». La nostra riflessione mette a fuoco questo momento preciso: quando il padre sceglie le parole da dire e quelle da non dire.

«La madre e il padre avrebbero potuto sostenere che per lui era finita, che non c’era  più spazio, in un mondo civile, per gente spregevole come lui. Questo discorso sarebbe stato coerente con quello che potrebbe accadere in un Paese ove fosse prescritta la pena di morte. Non è così nella nostra nazione», osserva Piotti. «La nostra professione di terapeutici crede nel formidabile potere trasformativo della parola. Crede che a Turetta si possa dire: “Non sarai per sempre quello che sei ora. Il tuo passato non è il tuo destino. Non sei condannato a un eterno ritorno dell’uguale, a essere sempre così come sei ora”».

Sì, Filippo Turetta sconterà la sua pena, sottolinea Piotti. «Il delitto terribile che ha commesso rimarrà per sempre come una macchia indelebile su di lui e non deve essere derubricato a un episodio isolato o ad un incidente: siamo ben consapevoli, infatti, che ogni futuro è stato sottratto a Giulia, giovane ragazza innocente, e che proprio Filippo è colui che ha tolto a Giulia ogni speranza e gettando nel dolore il suo papà, sua sorella, suo fratello».

Tuttavia, «proprio per il potere immenso del negativo, deve essere data anche a Filippo Turetta la possibilità di ritrovare se stesso nell’abisso della sua devastazione», evidenzia. «In questo difficile percorso il compito dello psicoterapeuta si esprime in un’etica paterna tutt’altro che patriarcale: si tratta di sostenere il cambiamento, di renderne praticabile la speranza, senza sottovalutare il delitto ma lasciando aperta una strada, prefigurando anche per lui, dopo la lunga prigionia, un futuro possibile».

Renderne praticabile la speranza, senza sottovalutare il delitto ma lasciando aperta una strada. È il senso della giustizia riparativa. Quella che contraddistingue il nostro sistema.

Immaginare un futuro: tra le poche frasi comparse sui media di Francesco De Nardo, madre di Erika, (che ha ucciso il fratellino e le madre), ce ne fu una: «Devo proteggerla, al limite anche da se stessa. Una ragazza della sua età deve per forza avere un futuro. Ma quando la guardo, a volte penso: dove ho sbagliato?».

Il cambiamento è possibile? Il parere del criminologo

«Di fronte all’aumento di minori che agiscono violenza sessuale la forma di intervento più adeguata non è chiuderli in carcere e buttare la chiave, ma sottoporre questi giovani a trattamenti criminologici specifici con l’obiettivo di aiutarli a maturare piena consapevolezza del reato commesso e della sua gravità, e scongiurare il rischio che ripetano il gesto». Parla così Paolo Giulini, criminologo clinico, cofondatore del Cipm (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) che vanta una trentennale esperienza con gli autori di violenza sessuale, di genere e femminicidi.

La scelta della terminologia utilizzata dice molto. «Li chiamiamo “giovani autori di violenza” invece di “giovani violenti o maltrattanti” nella convinzione che vi sia la possibilità di lavorare sui comportamenti. Pur riconoscendo che non tutti cambieranno».

Come sostenere i genitori?

Turetta padre ieri ha chiesto scusa, attraverso il sito del Corriere del Veneto: «Chiedo scusa per quello che ho detto a mio figlio. Gli ho detto solo tante fesserie. Non ho mai pensato che i femminicidi fossero una cosa normale. Erano frasi senza senso. Temevo che Filippo si suicidasse. Quegli instanti per noi erano devastanti. Non sapevamo come gestirli. Vi prego, non prendete in considerazione quelle stupide frasi. Vi supplico, siate comprensivi».  E poi ha aggiunto: «Filippo ora si rende conto di quello che ha fatto. E io non pronuncerei più quelle parole».

Ricordiamo che, in un’intervista sulla stampa,  appena dopo l’arresto, il padre di Filippo, aveva detto do suo figlio: «è un ragazzo normale, praticamente perfetto. Uno sempre bravo a scuola. Un buono, un ragazzo molto tranquillo».

Il suo commento, purtroppo, non stupì chi studia da tempo la violenza di genere. La violenza contro le donne ha radici complesse, multistrato, multi fattoriali che intrecciano questioni culturali, storiche, economiche, sociali. Il contesto famigliare in cui si cresce, seppur non determinante, riveste comunque un ruolo significativo.

«Sminuire o giustificare per un genitore la gravità e responsabilità di un atto distruttivo e violento di un figlio può essere un modo difensivo e rassicurante di fare l’economia di pensieri e riflessioni sulle eventuali carenze o mancanze nei propri compiti educativi, che spesso generano figli poco  (o per nulla) visti né conosciuti», osserva Giulini. «In questa vicenda ad esempio non c’è stata  a pieno la sensibilità del genitore di cogliere il flusso emotivo strabordante di un figlio non in grado di gestire un’adeguata distanza affettiva e in preda ad angosce fusionali, capace di scrivere miriadi di messaggi giornalieri alla propria fidanzata». Anche per questo, conclude il criminologo, nella drammaticità di questi eventi «sarebbe opportuno accompagnare i parenti dei femminicidi con specifici percorsi trattamentali volti all’elaborazione del terribile agito distruttivo del loro caro».