Seleziona una pagina

Riportiamo l’articolo de La 27esima ora del Corriere della Sera a firma di Sabina Pignataro, che tratta dell’attuale tema dell’omogenitorialità, presentando l’ultima pubblicazione di Elena Buday e Federico Lupo TrevisanNon succede per caso. Percorsi omogenitoriali tra desideri e realtà“.

 

Anna e Giulia sono due nomi di fantasia, ma la conversazione è avvenuta veramente qualche sera fa tra le figlie dei miei amici. Giulia e Anna hanno entrambe 4 anni: nella classe di Giulia la sua compagna Francesca ha due mamme, e ora per Giulia è del tutto normale che esistano famiglie come quella di Francesca.

In Italia l’omogenitorialità, cioè l’essere padre o madre omosessuale, è un fenomeno sociale relativamente recente che è cresciuto nell’ultimo decennio parallelamente alla possibilità di concepimento tramite biotecnologie. E’ plausibile quindi che nei prossimi anni sempre più bambini (e adulti) saranno chiamati a confrontarsi con famiglie formate da due mamme o da due papà. Dell’esperienza quotidiana dei genitori gay e lesbiche e dei loro figli parla Non succede per caso (ed. FrancoAngeli), il libro nato dall’incontro tra Elena Buday e Federico Lupo Trevisan, psicoterapeuti dell’Istituto Minotauro di Milano (sviluppato da Gustavo Pietropolli Charmet), con circa trenta coppie omosessuali. Un libro che, senza prendere posizione nel dibattito relativo a “omogenitorialità sì-omogenitorialità- no”, prova a scavare fino alla radice umana e affettiva delle famiglie omogenitoriali e che al tempo stesso, senza aver pretese universalistiche, prova a restituire la voce a tutte quelle famiglie (omo ed etero) le quali ogni giorno sentono di dover lottare per legittimarsi, accreditarsi, farsi spazio, farsi conoscere e riconoscere.

Quello che emerge con chiarezza dalle 140 pagine è come le famiglie omogenitoriali, data la novità della loro struttura, non possano appoggiarsi a consuetudini socio-culturali consolidate ma debbano ogni giorno inventarsi strategie per far fronte alla quotidianità. A partire dalla scelta del nome con cui farsi chiamare dal proprio figlio e dagli altri: mamma, mamma bis, co-mamma, mamma biologica, mamma affettiva, papà, papà biologico, babbo, daddy, papi? Il nostro vocabolario non offre una terminologia consolidata che sia del tutto pertinente all’esperienza dei genitori omosessuali così ogni coppia deve deare la soluzione che le è più congeniale. La scelta è tutt’altro che irrilevante come testimoniano alcuni racconti: «Prima che nascesse la bambina avevamo deciso di chiamarci così: il mio compagno papà e io papi… lui però dice comunque sempre papà… è piccolino! Però se uno dei due dice “vai da papà” lui va dall’altro… Lui dice “papà e pappa”…».

Uno degli intervistati racconta la confusione che si genera quando vanno a trovare la nonna. «Quando lei dice “dove è papà?” si riferisce a R. [suo figlio] e non a me. Ha 80 anni [..] e all’inizio è andata in crisi: diceva “dove è la mamma”?».

Una scelta, quella del nome, che acquista una forza maggiore quando è direttamente connessa al riconoscimento formale, sociale e legale dei genitori. Ogni volta che essi entrano in relazione con i pediatri, i vicini di casa, il panettiere, i genitori dei compagni, l’impiegato comunale, l’insegnate di nuoto, le maestre dell’asilo. Ogni volta che è in gioco l’esercizio di un diritto o di un dovere.

Le famiglie intervistate da Buday e Trevisan sentono di doversi conquistare attivamente sul campo la legittimazione del loro ruolo, e di dover lavorare molto per costruire attorno alla loro famiglia, e al bambino in particolare, un riconoscimento sociale che invece alle coppie eterosessuali viene attribuito di default sulla base della generatività biologica. Quasi tutte raccontano che, ovunque si trovino, è fondamentale che si presentino e si raccontino. «Quando hai un figlio, ogni giorno non potrai mai lasciare un fraintendimento… non puoi sentire che sei una zia… ogni volta devi ripetere e ripetere e ripetere», racconta una mamma.

«Noi dobbiamo fare coming out 100 volte al giorno», racconta un’altra». «Noi -riferiscono altre due- dobbiamo preparare il terreno: cerchiamo di presentarci… anche su WhatsApp [nella chat di classe]… noi siamo le mamme di J. eccetera… che sia forte la visibilità familiare». La scuola, nello specifico, sembra essere un territorio molto importante che può rilevarsi un ostacolo oppure, come è accaduto nella classe di Giulia e di Francesca, un trampolino verso la normalità. Però è una roulette russa: «Puoi trovare la maestra impreparata o il maestro omofobo oppure quello che ti spalanca le porte: non puoi prevederlo», riflette uno dei genitori in attesa. Una mamma ha menzionato come problematica la gestione delle pratiche per poter andare a prendere i suoi figli a scuola: «La mia compagna, madre biologica, ha dovuto delegare me per il ritiro dei bambini! Era una cosa che sapevo, mi dispiaceva, sì, mi disturbava ma quando mi sono proprio ritrovata a fare quella firma ho sentito come uno spillo nello stomaco, è stato peggio di come lo immaginavo».

Altre due mamme hanno raccontato le anomalie nella gestione delle pratiche sanitarie: «Siamo andate a portare la bambina dalla pediatra e ci doveva essere la firma di entrambi i genitori, la pediatra si è scusata, mi ha fatto firmare dove c’era scritto firma del padre».

Talvolta a doversi presentarsi e di accreditare sono i bambini stessi. Come raccontano Francesca e Marta, mamme di Filippo, otto anni, e di Giacomo, sei anni. A preoccuparle non sono solamente quelle «domande solo parzialmente innocenti che purtroppo ricorrono con la frequenza di uno stillicidio quotidiano», ma anche quelle direttamente rivolte ai loro figli da parte dei compagni di classe. Talvolta, Filippo e Giacomo esprimono con le loro mamme una certa insofferenza nel sentirsele ripetere più e più volte: «Noi glie lo abbiamo già spiegato che abbiamo due mamme: perché dobbiamo sempre ripeterglielo?».

Insomma, in Italia il percorso per l’inclusione e il riconoscimento delle famiglie omogenitoriali è appena cominciato (non è così in altri paesi europei) e, come per tutti i cambiamenti sociali importanti, sarebbe necessario (ed auspicabile) che fosse sostenuto da serie misure normative. In questo senso, la scelta di rimpiazzare nei moduli burocratici la voce ‘Genitore 1’ e ‘Genitore 2’ con ‘madre’ e ‘padre’, non è d’aiuto (e immagino non volesse nemmeno esserlo).

E’ ragionevole pensare che le altre resistenze saranno vinte nel tempo tramite la consuetudine e la conoscenza, come è avvenuto nella classe di Giulia e Francesca. La strada non può che avere questa direzione. Del resto è sufficiente predisporre uno sguardo aperto ed onesto, che sospenda almeno temporaneamente le posizioni aprioristiche, per rendersi conto che non esiste solo la famiglia tradizionale (che è definita tale solo per cultura e non per natura), ma esiste un variegato arcipelago tutt’altro che omogeneo di famiglie (separate, ricomposte, alle prese con fecondazioni assistite, adottive e monoparentali) ognuna delle quali è portatrice delle proprie specificità, ricchezze e debolezze. Ognuna delle quali dovrebbe sentirsi tutelata in uno Stato democratico.