Condividiamo l’articolo del 20 Dicembre 2024 scritto da Matteo Lancini per La Stampa
Cognetti ci insegna come chiedere aiuto, fidarsi degli altri per non affondare
Lo scrittore ha raccontato di essere stato ricoverato per una depressione sfociata in un disturbo bipolare. In questo mondo individualista le relazioni autentiche possono soccorrerci, anche nella malattia mentale
Di Matteo Lancini
Le parole inaspettate, inattese di Paolo Cognetti colpiscono nel profondo perché svelano una verità affettiva, radicata e presente in ognuno di noi. Una sensazione, una voce che tendiamo tenacemente a silenziare, a tacitare, soprattutto in questa epoca dominata dal fascino della psicologia positiva, del mostrarsi sorridenti e felici, del vedere il bicchiere mezzo pieno.
È la verità del dolore, della tristezza, della sofferenza come statuto fondante del nostro esistere, della nostra vita quotidiana. Puoi ottenere il successo o non raggiungerlo mai, disporre di buone o scarse risorse finanziarie, puoi abitare in una metropoli o in mezzo ai boschi, ma se non accetti, annetti, integri il dolore nella tua vita, la sofferenza ha il sopravvento.
Conviene provare a essere il proprio dolore, non eliminarlo, fuggirlo. Senza dolore non esiste crescita, non c’è sviluppo, senza qualche forma di sofferenza non c’è evoluzione. Le storie di chi ha il coraggio di dire davvero chi è, come si sente e che cosa prova rappresentano ciò che più mi interessa nella vita. Quelle raccontate da personaggi pubblici, da chi si è fatto conoscere e ha avuto successo, magari generando qualche invidia e non solo ammirazione, possono essere molto potenti e costringerci a riflettere.
Prevale oggi una narrazione monodimensionale, bidimensionale, per essere generosi, secondo la quale chi ha fama, popolarità, visibilità e bellezza, se la spassi alla grande, rappresenti un ideale esistenziale da rincorrere. Come se il successo, la capacità narrativa, la competenza potessero fornirci la garanzia di un’esistenza senza dolore, priva di fatiche emotive, affettive, relazionali.
Nella mia esperienza di vita, non solo professionale, vale piuttosto l’inverso. Chi è più in contatto con il proprio demone spesso produce grandi meraviglie. Ma questo non vuole essere l’elogio della follia, anzi. Stare male, chi più e chi meno, è una condizione diffusa, vicina, a strettissimo contatto con ognuno di noi. A stare male siamo tutti noi, si tratta solo di una verità gigante ma altrettanto bistrattata, negata e offuscata da un mondo che rincorre la bugia, la finzione e la mancanza di autenticità a tutti i livelli. Il racconto dello scrittore milanese ci suggerisce una via, una visione che non è solo quella che sottolinea l’importanza del parlare di salute mentale, di nominare le parole disturbanti come tristezza, sofferenza e dolore. Solo questo non basta. La fiducia verso gli altri, legittimarsi la possibilità di chiedere aiuto, la relazione affettiva autentica come ancora a cui aggrapparsi, per non affondare e sprofondare nella malattia mentale. Questo è il passo successivo, fondamentale e per nulla scontato. Che siano i medici, gli psicologi, i familiari, un amico, una compagna o un partner, talvolta fa poca differenza se alla base del legame c’è la possibilità di parlare di chi si è davvero e di cosa si sperimenta davvero, senza doversi nascondere dietro la facciata della gioia e del benessere e a tutti i costi. Va bene conoscere sé stessi ma poi serve la relazione.
Viviamo in un’epoca di spaesamento, dove l’affermazione dell’individualismo, l’incitamento all’indipendenza e l’indignazione social dominano fino a negare le nostre fragilità e i nostri bisogni affettivi più veri e profondi. Non a caso, l’espressione dipendenza affettiva viene additata come il male assoluto, negando il dato che ci vede nascere come bambini immaturi e nel pianto, dipendenti affettivamente da qualcuno che accolga i nostri bisogni primari, senza il quale non sopravviveremmo.
Da questa deriva, solo la relazione ci può salvare. La relazione è tutto. La relazione è l’unica esperienza che ti può far cambiare idea se stai pensando di suicidarti, la relazione è tutto quello di cui ha bisogno un bambino, un adolescente, uno scrittore, uno psicoterapeuta, l’altro, chiunque sia.
Nella società algofobica, della pornografizzazione delle emozioni e dei sentimenti umani sempre ripresi da qualche fotocamera, dell’inautenticità che trasuda dai nostri volti e dal troppo tempo dedicato ai pettegolezzi su colui che in quel momento è assente, ci serve imparare a stare nel dolore e a stare in relazione con l’altro. Dolore e relazione sono oggi la nostra speranza. Per noi e per i nostri figli e studenti. Il resto è solo il sentirsi molto soli in mezzo agli altri.