Condividiamo l’intervista di Paola Sacchetti a Matteo Lancini per la rivista Psicologia Contemporanea.
Il conflitto tra Russia e Ucraina ha portato nelle nostre vite le immagini di devastazione e di sofferenza della guerra, insieme al correlato emotivo di malessere, timore, paura. Se pensiamo a come sia emotivamente “faticoso” per noi adulti affrontare queste immagini e queste narrazioni, immaginiamo come possa esserlo maggiormente per bambini e ragazzi. Dall’inizio della guerra, bambini e ragazzi hanno posto moltissime domande, sul perché si faccia la guerra, sui motivi per cui è iniziata, sul perché continui nonostante la condanna e la riprovazione del mondo intero. Per gli adolescenti è anche più complesso: leggono, si informano, ascoltano i telegiornali, alcuni si sono avventurati in approfondimenti di geopolitica per tentare di comprendere il perché di quanto sta accadendo e di come “fermarla”, e chiedono spiegazioni, cercano soluzioni perché hanno bisogno di capire e di arginare il senso di impotenza che sentono. Rispondere alle loro domande non è semplice, ma è essenziale farlo.
Oltre alla difficoltà di comprendere i motivi di una guerra che non capiscono fino in fondo, i ragazzi vivono con grande apprensione il fatto che questo conflitto sia geograficamente molto “vicino” a loro, che è il primo in Europa da molto tempo: “Arriverà anche qui da noi?”, “Davvero potrebbe iniziare la terza guerra mondiale?”, “Dovremo andare a combattere?” sono alcune delle domande si pongono.
Abbiamo chiesto al Prof. Lancini di aiutarci a trovare le parole adatte per affrontare questo argomento.
Come possiamo parlare agli adolescenti della guerra?
Innanzi tutto, le preoccupazioni e l’apprensione che possono provare, al di là che si tratti di bambini o di adolescenti, dipendono dai soggetti: possono esserci bambini che sono preoccupati dalla guerra e adolescenti che lo sono meno o non lo sono affatto: dipende dalla sensibilità di ognuno e da tante altre variabili.
Il tema centrale, tuttavia, non penso sia trovare le “parole giuste” per parlare con gli adolescenti; il tema centrale è la relazione. In questo momento la guerra, che arriva dopo due anni di pandemia, sollecita una grande angoscia negli adulti di riferimento, che corrono il rischio di commettere due errori: da una parte c’è il rischio di “coinvolgere” troppo bambini e adolescenti e quindi di voler affrontare l’argomento come se fosse un “dovere” – “Ora c’è la guerra e dobbiamo parlarne” – o di spiegarla come fosse una lezione di geopolitica. L’altro rischio è quello di essere troppo angosciati nel trattare questo tema e perciò di trasmettere ai ragazzi tutta questa preoccupazione.
Da diversi anni, ormai, è evidente una certa fragilità adulta, che porta a chiedere agli esperti quali siano le “ricette”, le “parole giuste” per affrontare qualsiasi argomento o per gestire ogni aspetto con i propri figli o con i propri studenti adolescenti. Questi adulti sembrano non essere più in grado, ed è questo il “vero” problema, di vedere realmente chi hanno di fronte, di capire chi è il loro interlocutore, di comprendere come “funziona” quello specifico ragazzo, quali caratteristiche ha. Cercano quindi soluzioni preconfezionate, utilizzabili in ogni contesto e situazione, ricette e parole giuste che però non sono adatte a due ragazzi che sono diversi, anche se hanno più o meno la stessa età.
Il tema centrale, perciò, non è tanto quello di che cosa dire e come rispondere alle domande che ci pongono, quanto quello di creare una relazione con i ragazzi con cui interagiamo, che siano i nostri figli, studenti o pazienti. È necessario costruire una relazione, che parta, per esempio, proprio dalle domande: con i bambini possono essere generali e ampie, “Vuoi sapere qualcosa della guerra?”, “Hai qualcosa da chiedere?”; con gli adolescenti si può invece chiedere “Cosa pensi della guerra?”, “Hai delle opinioni sulla guerra?”, e ascoltare le loro ragioni, che spesso sono del tutto inaspettate e molto diverse rispetto a ciò che il genitore o l’adulto di riferimento si potrebbe attendere.
Avvicinarsi agli adolescenti è possibile aprendo uno spazio di relazione che parta da domande poste dall’adulto e dalla possibilità di fare domande agli adulti e, elemento ancor più importante con gli adolescenti, ascoltare le loro opinioni, cosa ne pensano, l’idea che se ne sono fatti.
Detto questo, se un adolescente non vuole parlare della guerra, non lo si può costringere. Inoltre, è importante non pensare che le angosce che riguardano la guerra si risolvano con un comunicato stampa o una lezione, che senz’altro sarebbero una scappatoia facile all’impegno di instaurare un dialogo, di ascoltare realmente ciò che hanno da dire e di aprire quindi uno spazio autentico per creare una relazione.
Dopo un iniziale bisogno, a tratti con angoscia e con urgenza, di confronto con i loro adulti di riferimento, in primis genitori e insegnanti, alcuni adolescenti si sono “chiusi” in loro stessi, smettendo di parlarne o di voler sapere alcunché sulla guerra. È quindi inutile e controproducente “forzare” i ragazzi a parlare della guerra e ad affrontare gli aspetti emotivi che potrebbe smuovere in loro?
Forzare non è mai utile. Penso che oggi gli adolescenti non parlino quasi mai a insegnanti e genitori perché questi non sono disposti ad ascoltare cosa hanno da dire. Tuttavia, c’è un errore di base. Gli adulti sostengono di ascoltare di più i figli di quanto non sia accaduto a loro, ed è vero. Anche gli insegnanti lo fanno maggiormente rispetto al passato. Il problema è che quando i ragazzi parlano, la fragilità adulta non consente di ascoltare davvero quello che hanno da dire, quale è la loro opinione: l’adulto fragile, appena percepisce una fragilità nei ragazzi o ascolta un’opinione diversa, si domanda – e spesso afferma “Ma cosa stai dicendo!”, sia perché non è in grado lui stesso di affrontare la fragilità di un altro non sapendo gestire la propria, sia perché non riesce ad ascoltare. Quindi il problema non è forzare i ragazzi, ma “forzare se stessi”, perché non è l’adolescente che non è portato a parlare, ma l’adulto che non è portato ad ascoltare quello che l’altro ha da dire in quanto ciò che l’altro può dire lo angoscia troppo e lo preoccupa. C’è un forte individualismo che pervade la mente degli adulti, che non si identificano con i bisogni e le necessità espressive dei ragazzi. È quindi necessario “forzare noi stessi” e avere la capacità di ascoltare quello che hanno da dire, anche se non ci piace, anche se ci intristisce, anche se hanno opinioni diverse dalle nostre, anche se non condividiamo ciò che affermano. Altrimenti “faremo finta” di essere adulti, sostenendo di averli ascoltati, anche se ciò che hanno detto non l’abbiamo sentito perché non eravamo pronti, perché eravamo troppo angosciati, troppo concentrati a lenire la nostra preoccupazione o nel tentare di fornire una risposta “giusta”.
Molti ragazzi sentono di non avere alcun controllo su questi eventi: come possiamo aiutarli ad arginare il senso di impotenza che sperimentano, che spesso si somma a quella vissuta in questi due anni di pandemia?
Gli adulti dovrebbero preoccuparsi di non convincere i ragazzi che si può controllare una guerra o gli effetti di una pandemia, dovrebbero relazionarsi con loro avendo in mente le esigenze degli adolescenti di fronte a questi avvenimenti. Il fatto di non avere sotto controllo la propria vita è un elemento comune a tutti e esiste da sempre, è un’illusione che si possa avere una vita “manageriale”, tutta organizzata e completamente sotto controllo. La vita è fatta di errori, fallimenti, dolori, fino alla morte, e riuscire ad accettarli come elementi costituenti della vita di ognuno è un obbligo dell’adulto. Invece di preoccuparsi di come mettere sotto controllo qualcosa che non lo è, gli adulti dovrebbero, a seconda del ruolo, svolgere la funzione di “adulto significativo”. Preoccuparsi di come rassicurare un ragazzo, un figlio, che sia tutto sotto controllo in nome delle proprie angosce vuol dire dimostrare ancora una volta ai ragazzi che non c’è autenticità, che non c’è capacità di stare nella relazione. Se il bambino o l’adolescente chiede se ci sarà la terza guerra mondiale, non è che si debba avere la risposta, si deve dire ciò che si pensa, qual è la nostra opinione, la nostra incertezza. Non sono gli adolescenti a non aver sotto controllo le cose, sono gli adulti che le agiscono e creano le condizioni da questo punto di vista. Si tratta di una proiezione adulta, che vorrebbe avere tutto sotto controllo per dire che le cose vanno bene, mentre le cose non vanno bene. Non sono la pandemia o la guerra il problema, lo è come vengono gestite a scuola e in famiglia.
Possiamo dare qualche consiglio a questi “adulti fragili”, per essere un po’ meno fragili nel costruire la relazione con i ragazzi?
Non credete alle indicazioni valide per tutti i figli, di qualsiasi tipo siano, sia su quando comprare lo smartphone, sia su quanto parlare della guerra, sia quali parole utilizzare, ma tenete a mente il tema della relazione con vostro figlio, che è unico e peculiare, con i vostri studenti, che sono tutti diversi perché ognuno ha un bisogno educativo speciale. Al di là di ogni evidenza, c’è la possibilità di costruire una relazione di ascolto autentico dell’altro, delle rappresentazioni, dei vissuti, ma soprattutto dei bisogni dei ragazzi in questo momento di incertezza.
Se al centro di una pandemia, di una guerra, e prima ancora delle preoccupazioni sui pericoli di internet, non mettiamo le esigenze degli adolescenti, ma quelle degli adulti di “fare qualcosa”, in un’ottica adultocentrica e adultocentrata del “cosa devo fare io”, come se l’altro fosse un oggetto e non una persona con bisogni diversi, domande specifiche, esigenze particolari, faremo sempre interventi volti a rassicurare noi stessi, che ci facciano “dormire sonni tranquilli” e ci consentano di affermare di aver fatto qualcosa. Ma lo avremo fatto solo per noi, non avremo fatto nulla di utile per i nostri adolescenti.
Fonte: Psicologia Contemporanea