Riportiamo l’articolo di Caterina Duzzi per IO Donna con l’intervista a Matteo Lancini sull’iperinvestimento degli adolescenti nella rete e nei videogiochi.
Sono 300.000 solo in Italia gli adolescenti che passano anche 80 ore alla settimana davanti a games come Fortnite. Una dipendenza che si mangia ogni pensiero e ogni relazione. E da cui ci si libera solo con un percorso lungo e faticoso
«Tommaso, se ti guardi indietro pensi che i videogiochi abbiano distrutto la tua adolescenza?». «Guardi, le rispondo sinceramente, se non avessi avuto i videogiochi forse non sarei più qui». Nel paradosso di un male che sembra salvare, c’è la storia di Tommaso, 23 anni. E di tanti ragazzi che come lui hanno sofferto o soffrono di “gaming disorder”. Una dipendenza che di recente l’Organizzazione mondiale della sanità ha inserito nella classificazione delle malattie, riconoscendola come disturbo comportamentale, e che riguarda circa 300.000 adolescenti in Italia.
«Questa è la stima più credibile, parliamo di “persone a rischio videogioco” ma non c’è di fatto ancora una vera letteratura, anche perché non esiste ancora una vera diagnosi» spiega Paolo Giovannelli, direttore del Centro Esc per la cura delle dipendenze da Internet. Non solo si tratta di un fenomeno recente ma anche estremamente complesso.
Per capirlo, bisogna partire dalla storia di Tommaso
Fino a 13 anni è un ragazzino normale, va a scuola, frequenta gli amici, gli piace giocare a calcio e ai videogiochi, come a tutti i 13enni. Poi passa un periodo difficile e non si sente aiutato dai professori, tantomeno dai compagni. Inizia così a voler uscire sempre meno: «Davanti al pc ero al sicuro, non dovevo espormi al giudizio degli altri. A scuola il clima mi sembrava ogni giorno più ostile e non vedevo l’ora di tornare a casa. Mangiavo velocemente e iniziavo a giocare a Fortnite e tutti i miei pomeriggi passavano così. La mamma lavorava e spesso non c’era, mio padre tornava alle 8 di sera e, se protestava, gli dicevo che avevo appena iniziato».
Ma poi arriva la bocciatura: «Papà si è infuriato, minacciava di spaccarmi il pc e, per un’intera estate, mi ha proibito di usarlo». Non è la soluzione, anche perché nel frattempo la famiglia si spezza, un altro dolore: «Sapevo che i miei non andavano d’accordo ma il divorzio è stata una mazzata. Sono rimasto a vivere con mia sorella e la mamma, ma non era più la stessa cosa». Tommaso vede una psicologa, forse è quella sbagliata. «Ho iniziato ad andare a scuola a singhiozzo, ogni giorno alzarmi dal letto era uno strazio e contavo i passi fino all’aula per farmi forza. Poi, non ce l’ho proprio più fatta. L’unica cosa che mi faceva stare meglio era giocare e guardare le serie in inglese, ma solo per poter comunicare meglio con i giocatori stranieri».
World of Warcraft, Fortnite o League of Legends muovono numeri impressionanti
Parliamo di 27 milioni di player giornalieri solo per Fornite, come se quasi metà della popolazione italiana ogni giorno si sfidasse al gioco. Oltre lo schermo c’è un mondo popolatissimo, di gente, soldi, sponsor. Tommaso ne fa parte e non c’è più spazio per altro. «La mia vita era bere, mangiare e competere. L’unico obiettivo era diventare il più forte. Non uscivo più, avevo contatti solo con altri giocatori: tutte le mie energie erano concentrate a discutere con gli altri player le strategie migliori per vincere. Un abbraccio, il desiderio di una ragazza, non esisteva più niente. Per due anni il mio pensiero ogni sera era “domani devo fare meglio”».
Ma quando si può parlare davvero di dipendenza dai videogiochi? Sono le ore trascorse a giocare a determinarla?
No, limitarsi al numero di ore rischierebbe di creare una classificazione approssimativa. Un ragazzo che gioca molto ma che tiene insieme gli altri elementi della vita, va a scuola, vede gli amici, si prende cura del suo corpo, non ha un disturbo. Non bisogna fare confusione. Si parla di dipendenza quando il giocare si associa a un progressivo isolamento sociale» chiarisce Giovannelli. Matteo Lancini, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro di Milano, uno dei centri specializzati in Italia per la cura della dipendenza da videogiochi, aggiunge: «In realtà questo disturbo nasconde sempre un altro disagio. Come l’anoressia non ha origine dal cibo, allo stesso modo la dipendenza da videogioco non è “colpa” del videogioco».
Ma se non è possibile attribuire una relazione di causa effetto tra la patologia e il gioco in sé, è anche vero che esistono prodotti studiati per generare meccanismi di dipendenza e le aziende che li sviluppano assumono sempre più spesso psicologi per inventare sofisticati e irresistibili “tools”. «Purtroppo è innegabile che alcuni giochi siano concepiti per favorire meccanismi di affiliazione. Tutto quello che implica vincita, raggiungimento di un obiettivo a breve termine e gratificazione istantanea (in gergo “loop”) può creare dipendenza» commenta Massimo Guarini, CEO e Creative Director di Ovosonico, studio di sviluppo indipendente di videogiochi. «In particolare, mi riferisco ai giochi come Candy Crush in cui vengono inserite microtransazioni: giocarci è gratis ma per continuare bisogna comprare “vite”, un processo veloce che può dare luogo a fenomeni ossessivo-compulsivi».
Sotto accusa per i disturbi degli adolescenti ci sono soprattutto altri games, come Fortnite o World of Warcraft: «In questo caso il meccanismo che agisce è quello della community, gli adolescenti vogliono diventare i più forti, assumere uno status sociale all’interno del gioco». Una fuga in un mondo parallelo e fittizio di relazioni, come quella di Tommaso. «Succede agli adolescenti che sono già predisposti perché, per qualche ragione, non riescono a inserirsi nel gruppo. I ragazzi disturbati tenderanno a confondere realtà e finzione. Questi videogiochi, poi, attivano la serotonina, ma succede anche con i social network e il meccanismo dei like. Le strategie di marketing che agiscono sui processi profondi della psiche valgono per tutti i settori. E oggi si è coniato il termine “gamification”, un modello di business che prende in prestito tecniche di affiliazione mutuate dal gioco» prosegue l’esperto.
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna esistono veri e propri rehab per disintossicarsi
Nei Paesi asiatici addirittura ci sono bootcamp in cui viene impedito di giocare per periodi più o meno lunghi. Ma gli esperti italiani concordano che vietare non è la cura giusta: «Il videogioco è una difesa, consente di esprimere sentimenti di potenza, rabbia, onnipotenza. Mi spiego: “giocare a Napoleone”, in certe fasi, può evitare crisi psicotiche in cui la persona crede di “essere Napoleone”. Inoltre giocare con altri permette di mantenere comunque delle relazioni, anche se mediate dallo schermo» dice Lancini. E qui si spiega il paradosso di Tommaso, quello del male che salva: «Impedire di giocare è molto rischioso, è come togliere l’acqua a uno che è nel deserto, il rischio è che ricorra a gesti violenti» conclude Giovannelli.
Alcuni rehab americani che si fanno pubblicità su Internet promettono risultati in 28 giorni. «Non è proprio così, aiutare un adolescente dipendente da videogiochi è un percorso lungo» commenta lo psichiatra Federico Tonioni, che dirige l’unico dipartimento pubblico per la cura delle dipendenze dal web al Policlinico Gemelli di Roma e aggiunge: «Parlo di adolescenti maschi, perché le statistiche dicono che è un disturbo che colpisce i ragazzi nel 95% dei casi. Si tratta di un problema ambientale che necessariamente non riguarda il singolo giovane. Per questo ci prendiamo cura di tutto il nucleo famigliare».
Tommaso nel suo disagio è precipitato e molto piano è risalito, al punto di affidarci la sua storia
«Crescendo ho capito che ero depresso e sono riuscito a chiedere aiuto. Forse non sarò mai uno che va in discoteca, ma almeno una volta a settimana esco con i miei amici. Non ho smesso di giocare però mi do dei limiti e, nel frattempo, ho iniziato a guadagnare anche qualcosa, perché faccio l’allenatore di altri player». Del ragazzo che non usciva più di casa è rimasta una felpa con il cappuccio un po’ calato a nascondere il viso e la timidezza che dopo due ore di intervista gli fa dire: «Mi scusi ma proprio non ce la faccio a darle del tu».
A chi rivolgersi
In Italia l’unico ospedale pubblico che dispone di un dipartimento dedicato alla cura del disturbo da videogioco è il Policlinico Gemelli di Roma, con il Centro pediatrico interdipartimentale per la psicopatologia da web, diretto da Federico Tonioni. Oltre a realtà private che si occupano del problema, ad esempio il centro Esc e il Minotauro, possono offrire percorsi di aiuto dedicati servizi territoriali come i Sert e le Uompia, ovvero le Unità operative di neuropsichiatria e psicologia dell’infanzia e dell’adolescenza.
Il libro da leggere
Matteo Lancini è l’autore di Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa (Raffaello Cortina Editore). Nel libro è inserito un capitolo specifico dedicato alla dipendenza dei videogiochi nel quale Lancini aiuta i genitori a distinguere l’uso dei social e dei videogiochi da un sintomo di malessere o, addirittura, di dipendenza.
Consigli per gli acquisti
Sappiamo scegliere bene i videogiochi per i bambini? Indicazioni di base si trovano sulle confezioni dei videogiochi stessi: disegni schematici avvertono, per esempio, se il prodotto fa riferimento all’uso di droghe, incita all’odio o contiene scene di nudo. «La novità riguarda l’età al di sotto della quale il gioco non è adatto: finora dentro riquadri colorati comparivano numeri indicanti gli anni secondo la cosiddetta classificazione Pegi: 3, 7, 12, 16, 18» spiega Andra Rizzi, avvocato esperto di videogiochi ed esport e docente alla Queen Mary University di Londra. «Ora in Italia, oltre a Pegi, c’è anche una classificazione simile dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che, in più, aggiunge la fascia da 4 a 6 anni».