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Condividiamo l’articolo di Sabina Pignataro per Repubblica.it con l’intervista ad Antonio Piotti.

Vi è mai capitato, all’interno di una relazione sentimentale, di percepire di camminare su un terreno minato e di passare molto tempo a monitorare il vostro comportamento per evitare reazioni negative nel/nella partner? Se la risposta è sì, allora è probabile che siate vittime di abuso emotivo e che il vostro sia un amore tossico.

Secondo Maria Giuseppina Pacilli, docente di Psicologia sociale all’Università di Perugia, sono molti i segnali a cui prestare attenzione: «è possibile che vi sentiate controllati, intimiditi, soggiogati, umiliati e puniti dal vostro partner. E’ anche probabile che vi sentiate infantilizzati, perché lui/lei corregge costantemente o punisce i vostri comportamenti ritenendoli inappropriati; che vi sentiate in dover di chiedere il permesso prima di prendere anche la più piccola decisione (dal vedere degli amici, o spendere dei soldi o fare un viaggio). O ancora, che vi sentiate ridicolizzati e trattati/e, come se foste inferiori all’altra persona».

Quando queste sensazioni assumono il carattere della regolarità, pervasività e sistematicità nella relazione, chiarisce l’esperta, «ci troviamo di fronte a una relazione problematica in cui la vittima dell’abuso emotivo subisce un logoramento progressivo della propria autostima, della sicurezza di sé, della fiducia nelle proprie capacità e nel proprio valore».

Perché è così difficile accorgersene?

L’abuso emotivo nelle relazioni è un fenomeno molto più diffuso di quanto si pensi anche perché, spiega l’esperta, «spesso, nelle relazioni interpersonali intime, si tende a percepire come normali e dunque innocui molti atteggiamenti e comportamenti che generano invece disagio e malessere in chi li subisce».

In questa mancata (o limitata) percezione, «il retaggio storico, culturale e sociale da cui ciascuno/ciascuna proviene ha una grande influenza: come per altri linguaggi, ciascuno di noi acquisisce la grammatica e la sintassi della sessualità e dell’affettività dalla letteratura, dal cinema, dai media, dai modelli famigliari. Osserviamo questi modelli e li interiorizziamo emotivamente e cognitivamente, senza troppa consapevolezza».

Le fiabe che abbiamo ascoltato da bambine o i film che abbiamo visto, quantomeno fino alla generazione nata alla fine degli anni ’70, è costellato di indimenticabili eroine come Cenerentola, Giulietta Capuleti, Jane Eyre, Pretty Woman, Elizabeth “Lizzy” Bennet (la protagonista del romanzo Orgoglio e pregiudizio). «Ciò che emergeva da quei racconti era l’inevitabilità che i dardi dell’amore dovessero essere dolorosi, e che – necessariamente – al sentimento amoroso dovessero accompagnarsi lo struggimento e la sofferenza», osserva Maria Sara Mignolli docente e autrice, che qualche hanno fa ha scritto, insieme ad Antonio Piotti, una pièce, e poi un libro intitolato “Quando l’amore uccide” (FrancoAngeli).

Il caso di Pretty Woman
Mignolli declina per bene il caso di Pretty Woman: verso la fine del film, la protagonista Vivian chiede all’amica Kit: ‘Quand’è che capita? Dimmi un solo nome di una che conosciamo a cui è andata bene’. E l’amica risponde: ‘Quella gran culo di Cenerentola!’ «Non è un caso che venga citato il personaggio di una fiaba. Vivian, una prostituta, e Cenerentola, costretta a fare la sguattera, condividono una sorte ingiusta di umiliazione e degradazione umana». Entrambe, spiega l’esperta, «non hanno voluto o potuto contare solo sulle loro forze, non sono riuscite ad emanciparsi e a liberarsi da sole da una situazione degradante, ma si sono affidate a un uomo bello e ricco per salvarsi. Hanno creduto di averne bisogno». Poi, quando Richard Gere, alla fine del film, arriva con un mazzo di fiori sulla sua Rolls Royce bianca, che è il corrispettivo moderno del cavallo, molte hanno creduto che lui fosse l’uomo dei sogni. Qual è il problema? «Come il Principe senza nome di Cenerentola, questi personaggi veicolano lo stesso messaggio: io ti salverò, ti proteggerò e avrò cura di te. Ecco, qui si annida la trappola: le donne, accettando di delegare a qualcun altro, a un uomo, la loro felicità e la liberazione dal giogo che la sorte o la società ha inflitto, accettano implicitamente la loro dipendenza».

Ti offro la mia protezione
Il tema della protezione è molto complesso. «Di per sé, il bisogno di proteggere e di essere protetti quando si avverte la propria fragilità, non è sbagliato: se amo una persona voglio che non le capitino cose dolorose e, se capitano, cerco di aiutarla. Quando questa protezione è reciproca, essa aiuta la crescita della coppia e funziona quando si devono affrontare vicende difficili», spiega Antonio Piotti, docente dell’Alta Scuola di Psicoterapia del Minotauro. «Le cose vanno male quando, a partire dalla protezione, si genera una sottomissione e una dipendenza. La persona che si protegge diviene allora subordinata e perde autonomia, la costringiamo a essere come vogliamo noi. Questo crea una coppia fortemente asimmetrica. Con queste premesse, dietro la promessa dell’amore e della protezione si nascondono spesso le catene del controllo affettivo, sociale ed economico».

Ai maschi il compito di proteggere?
Secondo i dati di una ricerca Ipsos (su un campione di ragazze e ragazzi tra i 14 e i 18 anni) presentata da Save the Children in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, l’idea che il maschio abbia “il compito di proteggere” la ragazza fatica a sgretolarsi, specie tra i più giovani. Ne è convinto il 78% dei ragazzi intervistati e il 55% delle ragazze. «Per insegnare il rispetto degli altri -sottolinea Piotti- dovremmo aiutarli e aiutarle a distinguere una situazione nella quale la protezione è davvero necessaria, perché è l’altro a richiederla, da una situazione nella quale è il mio bisogno di proteggere e di sostituirmi all’altro a diventare dominante e a generare una sopraffazione».

«L’idea delle donne come esseri fragili e bisognosi della protezione speciale maschile è una componente fondamentale del sessismo, definita da Peter Glick e Susan Fiske come sessismo benevolo», sottolinea Pacilli, che è anche autrice del libro “Uomini duri. Il lato oscuro della mascolinità” (Il Mulino). «Centrale nel sessismo benevolo è la retorica delle donne come creature meravigliose e delicate, che per la loro grazia innata meritano di essere collocate su un piedistallo e adorate dagli uomini. Considerare una persona come degna di essere messa su un piedistallo (indipendentemente da chi essa sia, solo per la sua appartenenza al genere femminile) genera ancora una volta una relazione asimmetrica. Sul piedistallo si mettono gli oggetti non le persone, le quali proprio perché messe sul piedistallo di fatto perderebbero la propria libertà di movimento».

Amore non è possedere

Sebbene gli ultimi decenni siano stati cruciali per la conquista di tale libertà, il cammino da percorrere è ancora lungo. Come dimostra la storia autobiografia di Sonja R. che riesce a riconoscere e rompere con il suo partner solo dopo essere stata sistematicamente derubata dal suo partner della forza e dell’autostima. Lei lo racconta bene nel libro, “E questo sarebbe amore? Riconoscere una relazione malata e liberarsene” di Bärbel Wardetzki (Feltrinelli). Le ci sono voluti sette anni per aprire gli occhi su quello che credeva essere l’amore della sua vita, l’uomo dei suoi sogni.

«I più recenti episodi di cronaca sono testimonianza di come, soprattutto per alcune donne, il prezzo della libertà di scelta, quale quella di interrompere una relazione sentimentale, sia ancora troppo alto», sottolinea Leonardo Abazia, psicologo-psicoterapeuta, autore di “Il lato oscuro dell’amore” (FrancoAngeli), dedicato al fenomeno dello stalking. Spesso, alla base di alcune relazione c’è proprio l’idea che uno – più frequentemente l’uomo, possegga, come fosse un oggetto, il proprio partner (spesso una donna). «Il problema si pone quando si confonde il legame di attaccamento e l’investimento affettivo, con il possesso assoluto dell’oggetto d’amore».

Amore non è sacrificio

Sempre dal report Ipsos/Save the Children emerge un altro dato interessante: 4 giovani su 10 pensano che, all’interno della coppia, una ragazza sia capace di sacrificarsi molto di più del partner maschio.

«Se si intende l’amore in termini sacrificali si finisce con l’attribuire al partner un potere che, in una rapporto paritetico, non è legittimo», spiega Antonio Piotti. «Infatti in una relazione sacrificale, nella quale uno solo gode di tutti benefici, mentre l’altro rinuncia a qualunque forma di realizzazione del sé e spesso è costretto ad accettare qualunque umiliazione pur di mantenere il legame, quello che si verifica è solamente un rapporto di potere. Due persone che si amano certamente devono aiutarsi nelle varie fasi della loro vita, ma questo reciproco aiuto è ben diverso da una negazione della propria personalità in favore di un’altra».

Da Cenerentola e Rebel
Tuttavia, secondo Mignolli, nella cultura di oggi questa idea del sacrificio per un uomo, della rinuncia a sé per un amore idealizzato, sta venendo meno: «alla fiaba del Principe Azzurro, per fortuna, oggi le ragazze non credono più».

I modelli e i riferimenti culturali di cui dispongono le bambine, spiega, sono profondamente diversi rispetto al passato. «Il più grande produttore di cartoni animati per bambini, Disney, ha capito molto presto che i soggetti femminili come Biancaneve o la Bella Addormentata nel bosco non funzionano più. Ora le principesse sono Elsa di Frozen, che accetta e domina il suo potere, o l’audace e coraggiosa Merida di Rebel, che lotta contro le regole convenzionali e decide di “sposare se stessa” per proteggere la propria indipendenza». Insomma, aggiunge l’esperta, «le ragazze oggi vivendo un processo, talvolta anche doloroso, di liberazione dai modelli del passato: sanno che possono farcela senza matrimoni e senza baci; scelgono e decidono se, come e quando innamorarci. Ora si tratta di trovare un nuovo equilibrio».

Fonte: Repubblica.it