Condividiamo l’articolo di Monica Coviello con l’intervista a Matteo Lancini per Vanity Fair.
Noi, adulti di oggi, abbiamo un enorme problema, che ricade sui nostri figli. Siamo fragili, forse perché immersi in una società che dà valore sempre maggiore alla presenza estetica rispetto al contatto corporeo, forse perché – soprattutto dopo l’avvento di Internet – questa è diventata la società dell’individualismo, dell’affermazione di sé, del proprio pensiero e dell’immagine di sé come immagine a cui tutto il mondo deve corrispondere.
Il prezzo di questa fragilità la pagano i ragazzi, che «sentono di non essere sbagliati, di essere adeguati e di essere se stessi solo se comprendono fino in fondo ciò che l’adulto riversa nelle loro menti dall’interno». Ce lo spiega Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della fondazione Minotauro di Milano. Il titolo del volume è molto eloquente: mentre gli adulti sono alle prese con una crescente fragilità, i ragazzi si adattano alle esigenze degli adulti pur di farli sentire tali, dichiarando di essere esattamente come i genitori pensano.
Sembra paradossale, perché rispetto al passato si dà molto più ascolto ai figli.
«Non si può negare che l’ascolto sia maggiore, ma ciò che conta davvero è la capacità di ascoltare – e accogliere – anche quello che non ci piace, riuscire a capire quello che i figli hanno da dirci. Invece, sempre più spesso, i genitori (ma anche gli insegnanti) agiscono per pura necessità di sentirsi autorevoli e in pace con se stessi per avere svolto il proprio ruolo educativo. Chiedono ai figli di non esprimere difficoltà e delusioni, perché questo li addolorerebbe («eppure ho fatto così tanto per te»): chiedono loro di farli sentire adeguati anziché esprimere i loro bisogni. Ascoltano, ma non sentono».
E che cosa dovrebbero fare, in pratica?
«Mettere al primo posto il ragazzo, concentrarsi su chi è lui, considerarlo una persona con le proprie idee intime, i pensieri, i vissuti personali. Vederlo non solo come una propria estensione. Preoccupandosi del significato che ha nella sua storia e nel suo modo di essere un determinato comportamento, si fa qualcosa di utile per lui. Si rispetta e accoglie la sua volontà espressiva, ma bisogna essere attrezzati a sopportare ciò che ha da dire».
Talvolta, però, alle domande dei genitori i figli non hanno voglia di rispondere.
«Bisogna fare le domande giuste. Fino alle Primarie: “C’è qualcosa che mi vuoi chiedere?”. Dalle Medie: «Ti posso fare delle domande? Come va, oggi, su Internet? Socializzi? Oppure hai trovato dei motivi per stare male?». E, ancora: “Stai zitto perché temi di deludermi?”».
Quindi, permettere ai ragazzi di esprimere la loro sofferenza.
«Sì: nella società attuale si dovrebbe sdoganare il diritto alla sofferenza e al dolore, invece di provare ad allontanare a tutti i costi i sentimenti negativi. Sono aspetti della vita, che andrebbero integrati nell’esistenza al posto di una dicotomia secondo cui o si sta bene, ci si diverte e si è felici, o si è malati. Si può essere tristi, e intanto andare avanti e costruire un progetto di vita. È giusto promuovere il benessere, ma questo non implica dover stare sempre bene, non è realistico».