Dolori e fallimenti fanno parte della crescita ma noi adulti silenziamo ai ragazzi le emozioni negative

Condividiamo l’intervista di Lucia De Ioanna a Matteo Lancini per Repubblica.it

Interessarsi della sofferenza dei ragazzi senza occuparsi della fragilità adulta equivale a voler svuotare una barca usando un cucchiaio, senza prima riparare l’enorme falla dalla quale entra l’acqua.

Usa un’immagine eloquente, Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano, in apertura della lectio magistralis tenuta, dopo l’introduzione della sindaco Maristella Galli, giovedì sera sotto il porticato del parco Nevicati di Collecchio.

Prendendo le mosse dal suo nuovo libro, Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta (Raffaello Cortina), l’obiettivo non è giudicare ma illuminare il carattere dissociato, lacerato e lacerante nei suoi effetti, del modo in cui gli adulti – genitori, insegnanti, allenatori – senza rendersene conto, si relazionano alle nuove generazioni.

Il mandato paradossale di cui la società adulta investe figli e studenti, espresso dal carattere di ossimoro del titolo, è quello di essere se stessi, ma corrispondendo alle attese ideali degli adulti.

“Non credo si possano aiutare i ragazzi senza sostenere i genitori anche perché i figli vogliono essere amati dal papà e dalla mamma, non dagli psicologi né dai servizi di neuropsichiatria”.

Il punto non è, quindi, trovare facili capri espiatori (la pandemia, i social, i video-giochi, la scuola, la famiglia…) cui addossare la colpa di un’ansia e di un malessere che dilagano in modo pervasivo tra le nuove generazioni, quanto assumersi responsabilità da educatori, rivolgendo prima di tutto lo sguardo su di sé, sui limiti di “una società post-narcisistica, individualista e molto competitiva, dove l’altro è sparito da tempo insieme alla capacità di identificarci, di chiederci chi sono i nostri figli”.

Ma da cosa nasce la fatica del mondo adulto nel vedere l’altro? “È come se fossimo impegnati ad organizzare dei dispositivi educativi più rivolti a farci sentire autorevoli che realmente capaci di identificarci con i bisogni attuali e futuri di bambini e adolescenti”.

Se nel passato la famiglia tradizionale impartiva un modello educativo basato sull’ubbidienza, dando per scontato che il bambino dovesse sottomettersi al volere dei genitori senza poter esprimere desideri né frustrazioni, questo modello da anni è sfarinato: “Con la crisi della autorità paterna, la famiglia tradizionale si è trasformata: da normativa è diventata affettiva e relazionale e al suo interno alimenta il mito del cucciolo d’oro: in una società invasa da modelli prestativi, si impongono ideali molto elevati, fatti di successo, bellezza, necessità di essere popolari fin da piccoli. Il mancato invito del proprio bambino a una festa oggi per i genitori è motivo di vera sofferenza”.

Nell’epoca del narcisismo, prosegue Lancini, “i disagi e le patologie non riguardano più il senso di colpa ma il senso di vergogna: se la problematica dell’adolescente nel passato era il senso di colpa per l’espressione del desiderio e della sessualità, oggi gli adolescenti soffrono per non essere mai all’altezza di aspettative interiorizzate fin dall’infanzia”.

Con un’evoluzione ulteriore, osservata e presa in esame anche dal gruppo di psicoterapeuti del Centro il Minotauro: “In questa società un po’ dissociata, non ci accontentiamo più di proiettare aspetti ideali ma chiediamo ai nostri figli e studenti di non farci sentire inadeguati. Se la famiglia odierna ascolta i figli molto di più che nel passato, siamo poi in enorme difficoltà nel sentire cosa hanno da dire”.

Come se nulla dovesse arrivare a offuscare il quadro ideale del bambino costruito da parte degli adulti: “C’è una vera e propria rimozione di elementi disturbanti della crescita: sentimenti come la tristezza e la rabbia così come fallimenti e frustrazione, vengono vissuti come un affronto rivolto verso noi genitori che tanto ci siamo impegnati per offrire ai nostri figli le più diverse occasioni di socializzazione e di svago, culturali e sportive”.

In qualche maniera larvata, che passa come sottopelle e nel non-detto, “è come se chiedessimo ai nostri figli di non esprimere quei sentimenti”.

A causa di questa rimozione e di questa censura operata dal mondo adulto, per segnalare il proprio dolore i ragazzi devono lanciare messaggi molteplici: “Oggi ai ragazzi un sintomo non basta più per cui l’anoressica vuole anche tagliarsi, il ritiro sociale non è più sufficiente e dilaga un’ansia generalizzata non più legata alla prestazione”.

Da questo nodo si dipana un filo che porta al centro del labirinto, nel cono d’ombra che oscura la percezione e la conoscenza di sé: “I ragazzi oggi soffrono per un’ansia legata alla sensazione che, tentando di essere se stessi ma rispondendo a modelli ideali altrui, non hanno lavorato sul loro nucleo identitario e così non sanno chi sono. La sensazione è quella di non aver potuto esprimere chi sei perché hai dovuto crescere essendo te stesso a modo degli altri, in una società estremamente dissociata”.

Nella frizione, spesso ruvida, con la realtà che fa irruzione nella crescita, crolla l’ideale del cucciolo d’oro: “Con l’arrivo dell’adolescenza, arriva il corpo e non sei così bello come ti aspettavi; arriva l’età dell’amicizia e scopri che le amicizie le devi costruire da solo, senza la super-visione della mamma. Se non sei all’altezza di aspettative ideali molto alte, sviluppi un’immagine di te inadeguata e la sofferenza si esprime con un attacco portato verso il corpo. Le strategie di questo attacco al corpo, percepito come inadeguato all’interno della arena sociale, sono diverse, a volte congiunte, e vanno dal ritiro sociale al tagliarsi, dall’anoressia fino al tentativo di suicidio”.

Dal soggetto edipico, che prova la colpa, si è passati a un soggetto in preda a un ideale dell’io ipertrofico, troppo elevato, tirannico, per i cui standard nessuno può sentirsi abbastanza bello e popolare: “A questo punto l’unica scelta possibile è quella di sparire, rappresentando una delusione per sé e per gli altri”.

Di fronte a questo quadro, assumersi le proprie responsabilità di adulti significa prima di tutto “smetterla di proiettare su internet e sulla pandemia quelle che sono invece povertà educative che caratterizzano il nostro ruolo di genitori e insegnanti. Non si può attribuire alla rete ogni male, dagli stupri all’aumento delle carie. Internet è uno degli schermi su cui gli adulti proiettano le proprie fragilità per assolversi e potersi sentire autorevoli”.

Allo stesso modo, “la pandemia ha solo esacerbato sofferenze già presenti nei ragazzi”. Sterile accusare internet come se fosse un corpo estraneo mentre ormai, usando un termine coniato da Luciano Floridi, viviamo in una società “onlife”, dove “anche la realtà corporea transita sul virtuale”.

Un universo virtuale come spazio in cui fare esperienze di socializzazione dal momento che il corpo di bambini e ragazzi è stato posto sotto sequestro: “L’angoscia per quello che poteva capitare ai nostri figli fuori di casa ci ha portato a chiudere tutti gli spazi di gioco e socializzazione che invece caratterizzavano il mondo precedente”.

Ma, avverte Lancini, “le nuove generazioni devono recuperare la possibilità di esperienze con i coetanei in cui sperimentarsi in assenza di un controllo adulto”.

Guardando all’ambiente in cui gli adolescenti trascorrono più tempo con i coetanei, “una scuola veramente devota dovrebbe eliminare la valutazione numerica: nel nome dei voti stiamo creando una scuola dove per i ragazzi quello che conta non è l’apprendimento ma è portare a casa i malloppo. Se un bambino esce da scuola, in prima elementare, con uno smile sul quaderno ma il compagno ha ricevuto uno smile con la corona, la mamma farfuglierà che non importa, che quello che conta è solo che lui abbia dato il massimo, ma il bambino legge la delusione sul viso della mamma e, da quel giorno, non sarà più interessato agli apprendimenti e vorrà portare a casa la corona. Che significato ha oggi continuare ad alimentare competizione e dispersione scolastica?”

E a scuola come in famiglia, “i ragazzi hanno bisogno più che mai di adulti che sappiano parlare di emozioni negative: i dolori, gli inciampi e i fallimenti fanno parte del processo di crescita mentre noi li silenziamo. Abbiamo bisogno di una alfabetizzazione emotiva non dei ragazzi ma degli adulti che devono imparare a stare sulle emozioni disturbanti”.