Condividiamo l’intervista di Eleonora Camilli a Matteo Lancini per La Stampa.
Ripartire dalla scuola e da un’educazione sessuale, affettiva, identitaria che metta al centro anche la costruzione e la fine di un legame di coppia. Ne è convinto Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della fondazione Minotauro, dopo il terribile omicidio di Giulia Cecchettin per mano di un coetaneo, Filippo Turetta. Una storia terribile di femminicidio da parte di un ragazzo poco più che ventenne che riapre il dibattito su come prevenire la violenza sulle donne, a partire dalle giovani generazioni. «Prevenzione è la parola che non ci piace ma che oggi serve più che mai: smettiamola di fare informazione – dice Lancini – ci vogliono elaborazioni, momenti in classe in cui gli adulti mettano in parola le problematiche dei ragazzi».
Professor Lancini, cosa ci dice questa terribile storia delle relazioni tra i ragazzi?
«Credo che il tema centrale oggi è quello di portare dentro il luogo dove i ragazzi vivono tante ore, e cioè la scuola, delle nuove riflessioni, non solo sull’educazione alla parità di genere, al possesso e al tema di un patriarcato ancora presente, ma su un tema più ampio che riguarda la costruzione dell’identità in adolescenza e la dimensione della coppia, anche la sua fine».
Cioè?
«Siamo cresciuti in culture in cui il vincolo di coppia era molto forte, oggi la società è complessa e fluida. Ma la fine del rapporto di coppia in adolescenza può essere fonte di tanta sofferenza. Quando qualcuno distoglie lo sguardo e dice che è finita si prova una sofferenza molto forte. Oggi conta sempre meno il sesso rispetto a vivere nella mente dell’altro. Quando questo vincolo della mente viene meno, se non si ha un nucleo forte, è come se si perdesse tutto e si arriva alla disperazione. Per questo oggi non capisco cosa si aspetti oggi a introdurre questo tipo di educazione, anche al legame di coppia».
C’è però sempre un confine tra il dolore, seppur terribile, della fine di una relazione e pensare di fare del male fino a uccidere una persona.
«Ogni omicidio è un suicidio mancato e ogni suicidio è un omicidio mancato. Non conoscevo i due ragazzi, bisognerebbe sapere che tipo di relazione c’era. Ma incontro centinaia di adolescenti, in alcuni c’è una rabbia devastante».
Oltre alla scuola, c’è il ruolo della famiglia. Filippo Turetta è stato descritto anche dai parenti come un «bravo ragazzo». Per lei è possibile che non ci fossero dei segnali che avrebbero dovuto destare allarme?
«È una domanda che si pongono tutti i genitori, dopo che i fatti accadono tutti vedono i segnali d’allarme. Conosco ragazzi che non danno alcun segnale e poi tentano il suicidio, nessuno sa cosa è capitato nella loro mente. È un’illusione trovare segnali. Oggi la famiglia ascolta di più delle generazioni passate, ma dobbiamo capire cosa abbiamo da dirci. Ci sono fragilità che si trasformano in violenza, spesso più contro se stessi che verso altri, pensiamo alle condotte alimentari, ai tentativi di suicidi, agli incidenti stradali parasuicidari, etc. Bisogna capire quali frasi dire a tavola, non basta solo togliere cellulari. Oggi la famiglia ha molti competitor».
I social, per esempio?
«Il mondo di internet è il mondo della prestazione, del selfie. Non può esistere costruzione identitaria senza internet che è sempre a disposizione per risolvere problemi che i ragazzi non riescono a risolvere con gli adulti di riferimento. Noi dobbiamo aprire spazi di simbolizzazione che contrastino una società in cui la fragilità e l’abbandono sono così devastanti. Quindi si deve puntare non solo sull’educazione all’affettività ma a cosa significhi essere maschio e femmina oggi in una società in cui la sessualità è sempre meno importante. La violenza trova interlocutori negli spazi di internet ed è terribile che oggi la scuola non sia connessa. Perché così si lascia un vuoto».