Genitori e adolescenti, «perfetti sconosciuti» in famiglia: ecco come si può riprendere il dialogo
I genitori non li ascoltano. La scuola fa quello che può. Con gli amici, esprimere le emozioni è difficile. Abbiamo parlato con gli adolescenti per tentare di capire il loro disagio. E con Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro: «Tutti dovremmo chiederci: chi è mio figlio?»
«Ti dimenticherai presto di me».
Smettila.
«Sul serio, Giulia, non ne posso più. Voglio farla finita».
Elena, basta ti ho detto.
«Lo dirai ai miei, vero, che li amavo?».
Dopo questa conversazione a scuola con la sua compagna di banco, Giulia, 14 anni, a casa ha avuto un attacco di panico. «Era terrorizzata perché la sua migliore amica le aveva confidato di volersi suicidare», racconta la madre, «mia figlia è una ragazzina ansiosa, è in cura da una psicologa. Non conosco i genitori della sua compagna, ho chiamato la scuola e ho riferito tutto alla loro insegnante».
Giulia ed Elena sono due ragazzine fragili, come lo è la maggior parte degli adolescenti. Lo confermano le statistiche: i suicidi sono la seconda causa di morte tra i giovani tra i 10 e i 25 anni, e crescono i casi di autolesionismo e la violenza tra i ragazzi. Ormai l’età media di chi compie un reato per la prima volta è di circa quindici anni.
Una situazione rappresentata dalla serie tv britannica Adolescence, che segue da diverse prospettive l’omicidio di una ragazzina del quale è accusato un compagno di classe e che, esplorando gli effetti del cyberbullismo e dell’uso dei social da parte degli adolescenti e dei loro genitori, costringe questi ultimi a interrogarsi su cosa succede nelle proprie famiglie, a chiedersi: «Chi è davvero mio figlio? Quanto lo conosco? Ci parlo abbastanza?».
«Domande che dovrebbero farsi tutti», dice Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro, che a Milano svolge attività clinica, preventiva e di ricerca sul disagio evolutivo. Psicologo e psicoterapeuta, da oltre trent’anni ha a che fare con ragazzi «difficili», e ha appena pubblicato il libro Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti (Raffaello Cortina Editore). «I ragazzi oggi vivono un disagio che arriva sempre più spesso a esprimersi in forme estreme», dice, «pensiamo a Riccardo, il diciassettenne che a Paderno Dugnano ha massacrato i genitori e il fratellino. O al sedicenne che ha ammazzato una donna nel Mantovano perché voleva “scoprire cosa si prova a uccidere”. Adolescenti come tanti, che trascorrevano le giornate tra scuola, amici e sport, provenienti da famiglie “normali”, di ceti sociali medi o anche alti, all’improvviso uccidono o si suicidano, si chiudono in casa, abbandonano la scuola, si tagliano, hanno disturbi alimentari e un’ansia generalizzata».
Perché succede? «La vera domanda», dice Lancini, «è come mai questi ragazzi che noi genitori sosteniamo di ascoltare molto più che in passato, con una scuola che dice “facciamo tutto per loro”, non riescono a comunicare quando hanno un dolore, un conflitto, un’emozione che poi diventa un agito violento contro sé stessi o gli altri».
«Ho visto Adolescence e mi sono un po’ immedesimato in Jamie, il ragazzino accusato di avere ucciso la sua compagna di scuola», dice Lorenzo, 17 anni, studente in un liceo milanese, «guardavo i suoi genitori, che pensavano di essere presenti nella sua vita ma non lo erano, e gli insegnanti insussistenti, e mi sono chiesto: perché nessuno ci ascolta quando proviamo a esprimere le emozioni?».
Lorenzo da anni va da uno psicologo. Racconta: «Ho avuto problemi a causa dell’assenza di mio padre. A scuola i miei compagni mi prendevano in giro perché ero “quello che va dallo strizzacervelli”. Ma ho potuto esprimere quello che avevo dentro e lavorare su me stesso. È questo che manca ai miei coetanei: ognuno vive chiuso nel suo mondo. Corriamo tutto il giorno: scuola, nuoto, videogiochi, social, mode che cambiano da una settimana all’altra e se non ti adegui rischi di non essere accettato dagli altri. Anche i nostri genitori corrono, non c’è tempo per guardarci dentro. Reprimiamo le emozioni, anche perché abbiamo paura di parlarne».
«L’unica volta che ci ho provato, mamma è partita con un monologo su quanto io sia fortunata ad avere una famiglia che mi dà tutto, con genitori uniti e che mi amano», conferma Alessia, 16 anni.
«Mettiamo al mondo i figli chiedendogli di aderire a un patto incredibile: io e te ci capiremo perché io ti ho voluto e quindi ti ascolterò», dice Lancini. «Ma quando diventano adolescenti e provano a essere sé stessi, a esprimere le proprie emozioni, paure, tristezze e rabbie, le mettiamo a tacere perché ci danno fastidio, ci fanno sentire inadeguati, ci costringerebbero a sacrificare la palestra, l’aperitivo, il lavoro per i loro bisogni. Quindi, senza renderci conto, diciamo loro: non rompere e tieniti le tue emozioni che non mi piacciono. Quando il disagio esplode, ci inventiamo che la colpa è del fatto che li amiamo troppo, oppure di internet».
«La realtà», continua, «è che i nostri figli arrivano all’adolescenza con un vuoto identitario legato al fatto che non hanno potuto esprimere o hanno confuso le proprie emozioni. Cercano di colmare questo vuoto su internet. Ci vanno per cercare risposte, per ridurre la solitudine che sperimentano ogni giorno con il papà, la mamma e la scuola che dicono che stanno facendo tutto per loro e invece fanno tutto pur di non avere figli che sono tristi o che hanno paura, o studenti “rabbiosi”».
«La maggior parte dei miei amici non parla in famiglia di quello che fa o vive, i genitori hanno un’idea completamente diversa del tipo di persona che è il loro figlio», dice Anna, 18 anni, «il dialogo genitori-figli non è facile perché noi ragazzi, specie durante l’adolescenza, siamo aggressivi nel comunicare e i genitori vogliono evitare il conflitto, preferiscono non sapere. Molti hanno il terrore di dire qualcosa di sbagliato, rimangono sulla difensiva. Vivono in famiglia da perfetti sconosciuti e vanno su internet a cercare amicizie e risposte».
«In rete possiamo confrontarci con gli altri, ma anche nasconderci, e quando sei adolescente vuoi solo scomparire perché la realtà può far male. Chiudi le tende, guardi il telefonino, fai un videogioco, è un modo facile per evadere la realtà», aggiunge Valeria, 17 anni, «un paio d’anni fa, quando mia sorella si è ammalata di anoressia, io seguivo una ragazza su Instagram. Lei la odiava, perché diceva: “Non parla correttamente dei disturbi dell’alimentazione”, ma mi aveva aiutata a capire molte cose di quello che mia sorella stava vivendo e che nessuno in famiglia era in grado di
comprendere e gestire. I social possono aiutarti o distruggerti, dipende tutto da come li usi».
Continua: «C’è stato un periodo in cui le persone che dovevano uscire con me mi davano “il palo” all’ultimo minuto. Ho fatto un video su TikTok ispirandomi a Noia di Angelina Mango. Cantavo: “Mi viene la noia, mi viene la noia”. Volevo essere un po’ ironica, ma tra i commenti una ragazza mi ha scritto: “Ci sarà un motivo se nessuno vuole uscire con te”. Un pugno allo stomaco: aveva centrato una mia insicurezza, perché io pensavo, appunto, di non piacere. Sui social cerchiamo l’accettazione: quanti più follower hai, più ti senti accettato, e così con i like. Cerchiamo conferme di piacere agli altri. Essere presi di mira può essere molto doloroso».
Parlarne con i genitori è difficile. «Non ci capiscono, fanno fatica ad ascoltarci davvero, e noi ci sentiamo attaccati quando rispondono in certi modi», continua Valeria, «io ho cominciato ad avere un dialogo con mia madre quando ho imparato a dirle “mamma, devi essere gentile con me, devi parlarmi con calma, altrimenti mi sento attaccata”. Ho dovuto fare uno sforzo e calmarmi io per prima, però sta funzionando».
«La relazione è la vera soluzione», dice Lancini, «è l’unica esperienza che ti può fare cambiare idea se stai pensando di suicidarti, se digiuni fino a scomparire o vuoi ritirarti dalla scuola e dalla società. È tutto quello di cui ha bisogno un bambino, un figlio, uno studente. Invece di accusare gli schermi, dovremmo puntare su relazioni autentiche, basate sulla capacità di interessarsi davvero all’altro. Ci vogliono genitori che la sera a tavola facciano anche domande scomode: hai pensato al suicidio? Ti vedi brutto davanti allo specchio? E che quando un figlio parla, stiano zitti ad ascoltarlo. Alla fine, tutto quello che loro vogliono è essere amati e accettati per quello che sono dal papà, dalla mamma e anche dagli insegnanti».