Condividiamo l’intervista di Romina Marceca a Matteo Lancini per repubblica.it.
Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della fondazione “Minotauro” di Milano, spiega che «ritrovare una progettualità nella vita è l’unica possibilità che abbiamo di trasformare una crisi in crescita. Altrimenti non c’è più speranza». È quanto avevano tentato di fare anche Alessandro Giacoletto e la moglie Cristina Masera. Dopo il suicidio della figlia avevano fatto beneficenza e avevano parlato pubblicamente in convegni sugli abusi. «Ma — dice Lancini — non è bastato per dare un senso alla loro vita».
Ma come si fa allora a gestire un dolore del genere? Che in questo caso è duplice perché ad abusare della figlia è stato un parente?
«Chi rimane, in termini tecnici, si chiama sopravvissuto. Il suicidio di un caro riesce a perforarti la mente e per superarlo si costruisce un progetto attorno alla tragedia per guardare al futuro. Molti riescono costituendo associazioni o come hanno cercato di fare questi genitori con la sensibilizzazione sul tema. È un disperato tentativo di trasformare una crisi in uno sviluppo culturale e umano. Quando il dolore diventa devastante la progettualità non basta. In questo caso poi la decisione di suicidarsi è stata presa in coppia».
I genitori non sono riusciti a superare il senso di colpa?
«Tutti i genitori di figli suicidi provano un senso di colpa e nessuno lo può togliere. Probabilmente ciò che non si sono perdonati è avere affidato la figlia a chi li ha traditi e ha traumatizzato Chiara. Da psicoterapeuta parto da un percorso che non è consolatorio. Ci si deve stare nel dolore, andare fino in fondo. La vita non è lineare, può essere drammatica. Parlare di colpa è limitante, il discorso è più complesso. Bisogna cercare di aiutare chi vuol farsi aiutare».
«Il contesto conta molto se noi lo guardiamo dal punto di vista della cultura della relazione, non dalla sua ampiezza. L’unica cosa che avrebbe potuto far cambiare idea alla coppia
L’annuncio pubblico della violenza subita dalla figlia e della volontà di farla finita era più un esorcismo o un grido d’aiuto?
«In ogni progetto di suicidio c’è quasi sempre un ultimo tentativo di chiedere aiuto. Questa storia ci insegna che dobbiamo parlare di più di suicidio perché abbassa il fattore di rischio. Troppo spesso ci si vergogna di avere questo pensiero. C’è poi uno stereotipo da sfatare: chi dice di volersi suicidare di solito non lo fa. Purtroppo questa esperienza così drammatica dimostra il contrario».