Seleziona una pagina

Condividiamo l’intervista di Susanna Macchia a Loredana Cirillo per Repubblica.it.

Prima del Covid gli italiani passavano 5,6 ore a settimana davanti allo specchio (fonte, GfK). Poi è cambiato il mondo: Zoom, Google Meet, Teams sono entrati nei nostri computer – quindi nelle vite professionali e private di tutti noi – e il tempo trascorso davanti a schermi che riflettono la nostra immagine è aumentato esponenzialmente. Mai, nella storia dell’umanità, ci siamo specchiati così tanto ed è normale che questa sovraesposizione abbia delle ripercussioni psicologiche e sociali.
«Il cambio delle abitudini e l’esplosione di social che fanno della nostra immagine il loro vessillo, ha portato alla strutturazione di una società impegnata in una ricerca continua della perfezione, oltre che alla creazione di  canoni estetici irraggiungibili e in continua evoluzione», spiega Loredana Cirillo, psicoterapeuta presso l’Istituto Minotauro di Milano. «Se fino a qualche anno fa, per fare un esempio, il codice predominante era la magrezza, oggi si punta alla performance: il corpo non deve essere solo snello, ma tonico e modellato. Il confrontarsi continuo con dei modelli inarrivabili, e molto spesso artefatti, ha comportato l’insorgere di varie fragilità collegate all’autostima e all’immagine di sé». A farne le spese sono soprattutto gli adolescenti «che essendo in una fase di costruzione della propria identità e avendo un corpo in trasformazione che necessita di tempo per essere mentalizzato, faticano a confrontarsi con una società che non accetta la debolezza, la fragilità, l’imperfezione e l’inciampo. Tutto intorno a loro è finto, positivo, allegro, felice. Perfino quelle campagne pubblicitarie che promuovono l’ideale di una bellezza autentica, dunque imperfetta, fanno paradossalmente vedere soggetti altamente performanti mettendo in secondo piano i punti deboli ed enfatizzando la prestanza. Sarebbe utile il contrario: solo accettando le nostre debolezze, possiamo diventare forti», prosegue la psicoterapeuta. 

Guardarsi allo specchio, fisico o digitale che sia, non sarebbe di per sé un gesto negativo, anzi. «Da un punto di vista neurologico, la visione della nostra immagine attiva un’area del cervello che elaborando il riconoscimento facciale, fa aumentare la consapevolezza e la coscienza di sé», spiega la psicoterapeuta inglese basata a Londra, Sally Baker. Il problema è la frequenza e la qualità di queste interazioni visive con noi stessi. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Social Psychological and Personality Science, ogni giorno si scattano nel mondo 92 milioni di selfie e non essendoci ancora dati disponibili relativi a quante ore si passano impegnati in video conferenze, è difficile quantificare il tempo reale dedicato a guardare, controllare, correggere la propria immagine.

«L’osservazione occasionale di sé è normale, ma portata avanti compulsivamente distorce l’autopercezione», aggiunge Baker. Da qui alla Zoom Dysmorphia il passo è breve. Scoppiata durante i lockdown e individuata dal dipartimento di dermatologia dell’Harvard Medical School, la problematica porta a un serio conflitto con se stessi e alla ricerca di soluzioni che rendano il proprio viso all’altezza delle aspettative. Lo conferma l’aumento del 19,3% di trattamenti, sia chirurgici sia medico-estetici, segnalato lo scorso gennaio dalla Sicpre (Società internazionale di chirurgia estetica) e relativo proprio all’anno post Covid: il 2021.
«L’aumentata attenzione al proprio corpo e alle nostre immagini riflesse ha cambiato il senso di sé. Il nostro aspetto è diventato ciò che siamo. Tutto questo è radicalmente diverso dalle generazioni precedenti, in cui l’identità o il senso di sé riguardavano il carattere o il ruolo non certo l’esteriorità», sottolinea Heather Widdows, professoressa di filosofia alla Warwick University e autrice del libro Perfect Me: Beauty as an Ethical Ideal (Princeton University Press).
Secondo la psicoterapeuta Cirillo, il recupero del senso di sé passa attraverso «l’accettazione della propria immagine imperfetta, a volte triste, altre arrabbiata, corrucciata, confusa. In sintesi: reale, non ritoccata da filtri fisici e digitali e da codici fuorvianti».

A proporre un percorso che aiuti ad accettare la propria fisionomia no-filter ci ha pensato anche Samantha Colocci, fondatrice del blog Don’t forget the mirror, coach e ideatrice del recentissimo progetto Il Posto dell’Anima in cui insegna alle donne a fare un uso consapevole e corretto dello specchio. Attraverso incontri di gruppo, sedute one-to-one, video lezioni ed esercizi mirati, la coach offre gli strumenti necessari per tornare a specchiarsi senza ricercare un’immagine non corrispondente alla realtà. «Molte smettono di guardarsi allo specchio perché non si riconoscono più. Bisogna avere fiducia in se stesse abbracciando quello che siamo e sbarazzandoci di stereotipi e aspettative. Un viaggio non facile, ma di grande soddisfazione».