Condividiamo l’editoriale di Matteo Lancini per La Stampa.
Il suicidio di personalità note, che ricoprono ruoli professionali e sociali apicali, ci interroga e ci sconvolge. Come è possibile che chi ha ottenuto soddisfazioni e riconoscimenti, raggiunto traguardi così rilevanti, coltivi segretamente l’idea del suicidio fino a metterla in atto? Come mai una decisione così drastica, violenta, da parte un individuo che ha ottenuto così tanto successo e potrebbe essere ricordato per ciò che ha fatto nella vita e non perché l’ha interrotta? Quasi sempre la nostra mente si rifugia nell’idea che il soggetto fosse malato.
Non è quasi mai così, ma la malattia, mentale o fisica, rappresenta un rassicurante appiglio davanti a ciò che altrimenti sarebbe inaccettabile. C’era un’anomalia, non una normalità. Ma non è questo l’ennesimo segnale di un processo individuale e collettivo di rimozione del dolore? Se soffri sei anomalo, malato, sbagliato. Così facendo non agevoleremo nessuno di coloro che in questo momento pensa di morire volontariamente a comunicare il progetto che prende forma nella solitudine della propria mente. Quasi sempre, invece, il pensiero suicidale diventa gesto suicidale a seguito di un fattore precipitante. Un evento, una situazione che progressivamente o improvvisamente è percepita da chi la vive come un ostacolo insormontabile, qualcosa che smaschererà, che mostrerà, a sé e agli altri, la propria personalissima fragilità umana.
Nessun lustro sociale e professionale riesce a sigillare la perdita di senso. La perdita di qualcuno, di qualcosa, della faccia, di quel ruolo. Ogni fattore precipitante è unico e diverso da ogni altro ma una cosa li accomuna tutti: la perdita del futuro, della speranza nel futuro. Le indagini sui suicidi, e i racconti di chi sopravvive al proprio tentativo di suicidio, ci dicono che quasi sempre, prima di cadere nella tentazione della morte volontaria, l’individuo lancia un messaggio, effettua una telefonata, è animato da una, a volte flebilissima, intenzione comunicativa, si rivolge a qualcun altro, a uno o ad altri esseri umani.
Ogni dolore è privato e unico, così come ogni singola vita umana e, dunque, merita il dovuto rispetto. Detto questo, a tutti noi spetta il compito di aiutare questa intenzione comunicativa ad essere detta, espressa per tempo, perfino a sollecitarla prima che diventi troppo tardi, che si trasformi in silenzio agito, violenza, gesto definitivo. Togliersi la vita è una possibilità che abita l’essere umano e il progetto segreto, custodito nella propria mente, non è quasi mai intercettabile se non comunicato dal diretto interessato.
Oggi, più che mai, dobbiamo parlare di suicidio con chiunque. Abbiamo il dovere di farlo molto precocemente, con i nostri figli e studenti nelle aule scolastiche e universitarie, in famiglia, ogni sera. Sentire che qualcuno è pronto a parlare di come ci si sente quando muore il futuro, la speranza è finita e il suicidio prende forma, abbassa il rischio che il progetto diventi azione, trasformandolo in parola, comunicazione, condivisione.
Quando il mondo ti crolla addosso e stai decidendo di abbandonarlo, solo la relazione con l’altro può farti cambiare idea.