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Condividiamo l’editoriale di Matteo Lancini per La Repubblica.it.

La pandemia ha esacerbato una sofferenza adolescenziale già presente precedentemente. Gli attacchi al corpo, come il disturbo della condotta alimentare, il ritiro sociale e i gesti autolesivi rappresentano già da diverso tempo la modalità elettiva attraverso la quale i ragazzi e le ragazze, nati nel nuovo millennio, esprimono il proprio disagio. I dati diffusi dall’Unicef, in occasione della Giornata mondiale dedicata all’infanzia e dell’adolescenza, confermano come il dolore evolutivo giovanile, se non espresso, se non trasformato in parole, diventa azione, gesto eclatante, sempre più spesso rivolto verso di sé.

Nel mondo quasi 46.000 adolescenti muoiono a causa di suicidio ogni anno – più di uno ogni 11 minuti. La maggior parte delle 800.000 persone che muoiono per suicidio ogni anno sono giovani e questa è la quinta causa di morte tra i 15 e i 19 anni.

L’attacco al corpo

Il suicidio è la forma più drammatica di attacco al corpo, la soluzione ricercata per mettere a tacere un dolore mentale che non trova canali comunicativi, che non riesce a essere dichiarato, narrato, riferito. Eppure sappiamo che ogni azione in adolescenza, ogni sintomo, anche l’attacco più drammatico al proprio corpo, contiene in sé un intento comunicativo.

Ogni madre, padre, insegnante, educatore dovrebbe tenere a mente questo concetto ed essere pronto a intercettare il dolore muto di adolescenti che sempre più frequentemente attaccano sé stessi. Gli adolescenti odierni non sono più trasgressivi, sempre più raramente si oppongono alle figure adulte, quasi mai le temono.

Se non si riferiscono agli adulti è perché temono di deluderli, li percepiscono come troppo fragili, incapaci di farsi carico seriamente e autorevolmente di cosa accade loro, di cosa provano, vivono in una società sempre più individualista e competitiva. La famiglia attuale ascolta molto di più di quanto fossimo ascoltati noi e di quanto fossero ascoltate le generazioni dei nostri padri, ma non riesce a sentire davvero cosa hanno da dire i propri figli, riducendo la complessità ad assenza di motivazione e distrazione da device e internet.

La scuola sbagliata

La scuola punta troppo sul controllo, la privazione e la valutazione numerica, contribuendo a una diaspora di adolescenti da scuola, senza precedenti. Le istituzioni politiche si concentrano spesso sull’incoscienza e dissennatezza generazionale. La sera, a tavola, bisognerebbe avere il coraggio di chiedere ai figli se pensano al suicidio, la mattina in classe si dovrebbe parlare della morte, che può essere pensata anche come soluzione, e comunque come avvenimento indistricabilmente connesso alla nascita e alla vita, le istituzioni dovrebbero realizzare campagne serie di prevenzione al suicidio giovanile.

Lo stigma

Oggi, più che mai, non bisogna aver paura di affrontare il suicidio. Il tema è troppo angosciante e si preferisce così pensare che è meglio non nominarlo, sostenendo che parlare della morte volontaria rappresenterebbe un fattore di rischio, un’istigazione a pensare al suicidio e a compiere il gesto. In realtà, è esattamente il contrario. Parlare del suicidio con gli adolescenti abbassa il rischio.

Dobbiamo offrire occasioni agli adolescenti per potere affrontare il tema con i propri adulti di riferimento. Altrimenti la tentazione della morte volontaria, coltivata nella solitudine della propria mente e della propria stanza collegata a internet, può trasformarsi da idea a progetto, fino a diventare un tentativo di suicidio.