Riportiamo l’articolo di Monica Coviello pubblicato su VanityFair con l’intervista a Matteo Lancini sul recente caso di cronaca del suicidio di una ragazza universitaria di Napoli.
Giada si è trovata con le spalle al muro: ai genitori, agli amici, al fidanzato aveva detto di avere completato gli esami per la laurea in Scienze Naturali. Martedì 10 aprile, da Imola, la mamma, il papà e il compagno sono arrivati all’Università Federico II di Napoli, pensando di assistere alla discussione della tesi. Il suo nome, però, non compariva nell’elenco dei laureandi: Giada non aveva ancora finito il percorso di studi. Ma non aveva avuto il coraggio di dire a nessuno la verità: è salita sul tetto dell’ateneo e si è uccisa lasciandosi cadere nel vuoto.
Perché è così difficile uscire dalla spirale delle bugie? Perché arrivare a togliersi la vita? Ne abbiamo parlato con Matteo Lancini, psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano e autore – fra gli altri – di Abbiamo bisogno di genitori autorevoli (Mondadori) e di Adolescenti navigati (Erickson). «Rispetto al passato – ci spiega – è cambiato il significato che ha la bugia. Un tempo, quando fra genitori e figli c’era una distanza maggiore, le bugie venivano dette dai ragazzi per timore nei confronti degli adulti. Vigeva la “legge del padre”, a cui si doveva obbedire. Ora quel modello è cambiato, e le famiglie sono più affettive: i genitori aiutano i figli a raggiungere i loro obiettivi».
Perché oggi i ragazzi mentono?
«Per non deludere. Non riescono ad ammettere il fallimento non per paura della reazione rabbiosa o della sanzione di un genitore, non perché hanno paura del padre, ma perché non vogliono deluderlo».
E si può arrivare a uccidersi?
«All’inizio si crede di poter “recuperare”. Ad esempio: “Darò l’esame durante la prossima sessione”, “Ne parlerò quando avrò risolto”. Ma le bugie e le omissioni si sommano, e non si riesce più a dominare la situazione. Si arriva di fronte a ostacoli insormontabili. Si vuole scomparire dalle scene perché quello che sta succedendo è intollerabile».
Perché spesso i ragazzi non parlano dei loro fallimenti nemmeno con gli amici?
«Oggi lo sguardo di ritorno degli altri – anche dei coetanei o del fidanzato – è considerato molto importante. Sentire che si ha valore nella mente degli altri è diventato fondamentale, e l’idea della popolarità è determinata anche dal potere orientativo dei coetanei. Che magari ce l’hanno fatta, nel frattempo: ci si vergogna ancora di più del loro giudizio».
Quali segnali può cogliere un genitore?
«La diceria secondo cui chi dice che vuole morire non lo farà deve essere smentita una volta per tutte: in qualche caso, chi parla di suicidio ha intenzione di commetterlo davvero. Il genitore deve avere il coraggio di chiedere al figlio se è triste, se ha un problema. E ascoltarlo attentamente, ma senza angoscia. Deve parlare del fatto che il fallimento fa parte della crescita e che c’è sempre una via d’uscita. Deve far capire al figlio che non c’è bisogno di mentire e che, in ogni situazione, il genitore sarà lì. Un adulto autorevole, che continuerà a dargli una mano».
Che cosa possono fare gli adulti per aiutare i figli?
«Devono aiutarli a tollerare la delusione, il sentimento di vergogna e di inadeguatezza, pur se la società non tollera l’insuccesso e il dolore. Devono testimoniare il fatto che il fallimento è inevitabile, ma può essere la base per costruire altri successi o nuovi modelli di realizzazione di sé».