Condividamo l’articolo di Adelaide Barigozzi con intervista a Loredana Cirillo su ELLE (21/06/2025)
Il tradimento degli adolescenti
Oggi più che mai i ragazzi esprimono le loro fragilità con atti autolesionistici e pensieri suicidi. Ma perché lo fanno? Abbiamo cercato di capirlo. E no, forse non è colpa dei social.
I motivi che spingono un ragazzo a non dare valore alla propria vita, però, sono cambiati negli anni. «Il sentirsi inadeguati e mai abbastanza – belli, popolari – ha fatto a lungo da regia nella fragilità narcisistica dell’adolescenza che si spezza davanti all’ostacolo vissuto come insormontabile, il rifiuto amoroso, il fallimento scolastico, ma oggi sono sopraggiunti nuovi dolori e i pensieri suicidari riguardano un profondo vuoto, un senso di vacuità dell’esistenza», spiega Loredana Cirillo, psicoterapeuta, socia dell’Istituto Minotauro di Milano, e autrice di Soffrire di adolescenza (Raffaello Cortina). Nessuna ambizione, nessun valore di riferimento e una grande fatica a vedere un futuro: sono queste le motivazioni che portano ad adottare comportamenti estremi e pericolosi, che gli esperti chiamano “condotte para suicidarie”. «Cercare la morte per loro non significa lasciare un segno eroico di sé, come accadeva nei profili narcisistici, ma porre fine a un dolore senza forma né nome. Paradossalmente, diventa una scelta identitaria, l’unico progetto possibile».
Fatti di cronaca anche recenti chiamano in causa internet, i social e il ruolo delle “chat del suicidio”, che nel mondo torbido del dark web istigherebbero a togliersi la vita. «Ma nessuno ci capita per caso, se un ragazzo le intercetta è perché le ha cercate, il problema è a monte», obietta Cirillo. «Cercare per forza un colpevole, i cellulari, la scuola, gli amici sbagliati, è solo un modo per deresponsabilizzarsi, la realtà è più complessa e ha a che fare con il cattivo esempio degli adulti e un sistema di valori che fa fatica a ridefinirsi, dove l’autenticità non è concepibile e a parlare di emozioni scomode come il dolore si fa molta fatica». Per fortuna, come sottolineano gli psicologi, il pensiero suicidario ha vari stadi di gravità – una cosa è pensare alla morte volontaria in generale e un’altra alla propria e arrivare a progettarla – ma, soprattutto, esistono dei segnali, difficoltà scolastiche, isolamento relazionale, che permettono di intervenire in tempo per lenire quel dolore da cui tutto nasce.
«A nessun ragazzo piace andare male a scuola, se ha dei problemi non è perché “non si impegna”, ma perché fatica ad assimilare nozioni in una mente già piena di sentimenti caotici e dolorosi che non sa come esprimere e a chi», dice la psicoterapeuta. Ed è qui che spesso nascono i guai. «In passato non c’era dialogo nelle famiglie, invece oggi la nostra società dice ai ragazzi: “Siate voi stessi, confidatevi, noi vi ascoltiamo”. Ma è un patto che viene infranto di continuo. Noi adulti prestiamo attenzione agli adolescenti solo finché ci rassicurano e gratificano, ma non appena condividono sentimenti negativi, tristezza, paura, ci ritraiamo spaventati cercando di alleggerire quella pesantezza. Rispondiamo: “No, aspetta, cerchiamo la soluzione, troviamo il lato positivo”. Ma così neghiamo il loro dolore e i ragazzi si sentono traditi».
Accogliere la sofferenza di un figlio è difficilissimo per un genitore, eppure è essenziale. «Prendiamo il caso di un ragazzo che di fronte al ragionevole divieto di uscire alle 3 di notte risponde “Allora mi butto dalla finestra”: la sua non è una minaccia teatrale ma un forte segnale di disagio», dice Cirillo. «Sottovalutarlo lo spingerebbe ad aumentare il tiro per essere considerato, mentre è importante non solo non assecondarlo, ma anche chiedersi perché dentro di sé non abbia una concezione di limite in grado di preservarlo».
Insomma, occorre farsi le domande giuste, e il prima possibile, perché il fattore tempo ha la sua importanza. Domande che Angel Cholka non si era ancora fatta quando all’alba di cinque anni fa a Neosho, Missouri, fu svegliata da un agente di polizia che le chiedeva di sua figlia Madi, 16 anni: era venuto a controllare come stava. Pochi minuti prima un software di tracciamento basato sull’intelligenza artificiale, adottato dall’istituto scolastico locale, aveva intercettato sul portatile della ragazza fornito dalla scuola un messaggio diretto a un’amica, in cui Madi diceva di voler andare in overdose di ansiolitici. La sua storia è riportata dal New York Times nell’ambito di un’inchiesta sull’introduzione di dispositivi di monitoraggio per la prevenzione del suicidio e dell’autolesionismo nel sistema scolastico americano come GoGuardian, Gaggle, Lightspeed, Bark e Securly, che si stanno diffondendo in tutto il Paese. Lo stato del Missouri è stato tra i primi ad adottarli.
Madi aveva effettivamente inghiottito una ventina di pillole, fu portata in ospedale e salvata, ma in molte altre occasioni si sono verificati falsi allarmi che hanno sconvolto tante famiglie, inoltre sono state sollevate forti obiezioni in merito alla privacy e al pericolo di abuso di controllo. Sarà questa la soluzione che ci serba il futuro prossimo per rispondere all’epidemia di problemi di salute mentale, anche tra gli adolescenti italiani? Uno scenario da Grande Fratello in cui si interviene in emergenza, senza ascoltare le ragioni del dolore dei ragazzi non sembra la risposta migliore. Del resto, come rivela il NYT, due anni dopo Madi, nonostante il software, è riuscita nel proprio intento. «Dobbiamo smettere di domandare ai ragazzi “com’è andata a scuola” e iniziare a chiedere “Come stai tu?”, “Quanto ti sei arrabbiato oggi?”. “Quanto sei stato triste? “Hai avuto paura?”. Non bisogna temere di farci raccontare le esperienze brutte che possono avere vissuto, e stare loro vicini», esorta Cirillo.
Spesso per ritrovare il senso di se stessi e la speranza che fa vivere – e non solo sopravvivere – serve il supporto di una psicoterapia, ma l’aiuto può arrivare anche da fonti inaspettate. «La scrittura per me è stata terapeutica», ammette Sara Colombo. «Con il mio libro mi rivolgo a chiunque abbia attraversato un dolore, ma anche a chi sa accorgersi della sofferenza dell’altro, perché si può essere determinanti nel salvare una vita». La stessa scrittrice lo ha sperimentato: «Quando stavo male dei vicini di casa mi sono stati accanto: senza il loro calore mi sarei sentita in una solitudine estrema. Per aiutare una persona in difficoltà non devi essere necessariamente il suo migliore amico, chiunque può farlo. E dalla sofferenza possono nascere amore e guarigione».