Riportiamo l’articolo di Silvia Lo Vetere pubblicato su La27esima ora del Corriere.it sulle difficoltà connessa al ruolo genitoriale nella società odierna.
Un’altra tragica notizia si ripete, questa volta a Pisa: una bimba di un anno muore di ipertermia, dimenticata dal papà sul seggiolino dell’auto nel parcheggio dell’azienda. Una tragedia che ci lascia privi di parole. Una tragedia non isolata però. Le statistiche negli Stati Uniti ci dicono che sono morti negli ultimi venti anni circa 37 bambini ogni anno dimenticati sul seggiolino. Una tragedia dal copione per lo più sempre uguale: madre o padre si recano al lavoro e dimenticano il figlio sul seggiolino dell’auto, accorgendosene qualche ora dopo, quando spesso più nulla purtroppo rimane da fare. Sicuramente un dramma che avviene in condizioni particolari di grave stress, allargato e reiterato. Che anche però, al contrario, avviene in uno scenario di vita non così lontano da quello di tutti noi. Da quel quotidiano di impegni, di incastri, di responsabilità, di ruoli in cui qualunque genitore oggi può riconoscersi. Tappa all’asilo, tappa al lavoro: uno stato delle mente di continua pianificazione sotto il mandato collettivo imperante di essere sempre prestanti, perfetti, efficienti su tutto.
Una condizione quindi, spesso di cronico sovraffaticamento di ogni genitore nella società delle prestazione e dei tempi convulsi e veloci. Da sola non capace certo di spiegare una tragedia che ci lascia privi di parole ma sicuramente una condizione strutturale della mente e di impegni concreti, di significativo stress. Forse troppo sottovalutato e non sufficientemente messo a fuoco. Proprio su questa condizione , qualche riflessione. Per lo più si pensa alla fatica di un genitore, come di tipo pratico-organizzativo: chi va a prendere il bambino, chi lo cura quando i genitori non ci sono, quali spazi creare in casa e cose di questo tipo. In una ricerca continua della migliore gestione di incastri, di tempi, di aiuti.
Dice Carla, al quarto mese di gravidanza: sono una personal trainer. Ho già pensato a tutto: quando arriverà, Carol, la mia bambina, mia madre la porterà al parco dove mi alleno. La piazzerò sulle mie spalle nello zainetto mentre mi esercito e così tutto risolto: io rimango in forma, indispensabile per la mia professione, e lei sta all’aria aperta. Siamo abituati, nella società della performance, a non spaventarci di fronte alla sovrapposizione di impegni, di livelli, di ruoli e di responsabilità. Anzi! Nasciamo sotto lo stringente mandato di realizzare ogni parte di noi stessi. Di farlo con impegno e anche rendendo visibili la nostra riuscita, la nostra tenuta, il nostro non avere mai tempi morti, come segnali di successo, di riuscita, di capacità di affermazione.
Tempi veloci, gestioni di incastri acrobatici, pianificazione sono le doti che da sempre siamo allora abituati a mettere in campo. Sotto la nostra (più o meno illusoria) stretta regia e controllo. E’ proprio sotto l’egida di queste attitudini, che Carla comincia a pensare a come predisporsi per l’arrivo della sua bambina tanto desiderata: quali incastri possibili per conciliarne la cura e il resto di sé? Ad esempio la professione che ha costruito con sacrifici e passione con la cura di Carol che desidera e che amerà con tutta se stessa? Una buona pianificazione, risolve . Cosa assolutamente e indiscutibilmente vera, ma non così capace di risolvere davvero tutto, come abitualmente si tende a pensare.
Ritroviamo Carla circa un anno dopo, in una affatto eccezionale scena familiare: Ore 6.30 del mattino: Ha la febbre!!!… Due genitori increduli, al risveglio. Segue una fugace reciproca occhiata: te ne occupi tu? Né lui , né lei possono. La mente (purtroppo ancora per lo più quella materna, ma sempre più anche quella dei padri) comincia velocemente e evocare scenari possibili, già predisposti : nonna, Tata? La vicina di casa? bisogna risolvere! il tempo passa e oggi la riunione di lavoro non si può saltare nuovamente. Mentre la mente ricerca soluzioni in una condizione di sollecitazione già pressante, altri pensieri si affacciano : però vorrei-dovrei essere qui con Carol, lei ha bisogno di me e io vorrei essere qui con lei, con calma. Capire bene cosa ha. Vorrei essere io a consolarla. Prendermi questo tempo per me e per lei. Non posso però , non posso assolutamente. Comunque mi muova non mi sento a posto.
L’arrivo di una bambino che, se voluto, continua ad essere forse l’esperienza più intensa e bella della vita, produce un vero scardinamento non solo nella organizzazione di vita pratico-gestionale, ma anche proprio nel nostra mente. Perché la mente di un genitore deve predisporsi a mettere in campo qualità spesso di segno opposto a quelle abituali per prendersi cura di quanto più sta caro al mondo, il proprio figlio. Qualità da conciliare con quelle abituali, indispensabili a continuare a portare avanti con il consueto investimento, tutti gli altri ambiti di vita. Nella seconda vignetta Carla sente qualcosa di più lacerante e allargato come ormai condizione abituale della sua mente. Una condizione che anche quando trova soluzioni pratiche all’imprevisto (la nonna, la tata) la lascia in balia di forti sentimenti, pensieri ed emozioni divise e contrastanti: quello che desidererebbe e sentirebbe giusto fare è continuamente in conflitto. La fatica quotidiana fra l’ essere per l’altro e l’ essere per sé. Una fatica che richiede la continua composizione di qualità opposte: essere adattabili di fronte a un bimbo che amiamo con tutti noi stessi, e al contempo iper programmati per tenere botta a tutte le altre aree in cui anche si dipana e si realizza la nostra vita; veloci, velocissimi nel prefigurare incastri possibili e al contempo lenti . Godendo di quella lentezzadi chi si predispone all’ascolto dei bisogni dell’altro e alla sua soddisfazione.
Abili pianificatori, e al contempo duttili e adattabili alle esigenze di chi da noi dipende e per il quale siamo saremmo disposti a tutto. Per lo più questa, la condizione strutturale dell’essere genitori oggi. Sicuramente consueta per le madri visto che il compito di cura rimane ancora a loro massicciamente delegato. Sempre però anche di più padri che, assumendo in toto o in parte la cura del proprio bambino , si trovano a vivere la medesima condizione. Una sfida dei nostri tempi. Una sfida ancora in buona parte vissuta in una vergognosa solitudine. In una cronica carenza di aiuti, che la trasforma a dismisura in rischio. Come può esistere un tempo per la prestazione e un tempo per la cura concreti e interni a noi, meno frenetico solitario e sovrapposto, in una cronica carenza di indispensabili aiuti collettivi?
Senza flessibilità oraria, senza adeguati servizi per l’infanzia, aiuti economici, sicurezze sulla carriera come fanno una madre, ma anche un padre a essere con tranquillità insieme al figlio ai giardini? In un orario decente, mentre temono magari di perdere il lavoro? No, nella società dell’efficienza è ancora paradossalmente lasciato troppo alla creatività dei soggetti, alla disponibilità economica personale e alle qualità dei singoli, il compito e la ricerca di questo difficile equilibrio fra cura e performance. Una cosa che rischia di esporre a dismisura a una condizione di stress reiterato, a un senso di impotenza e di inadeguatezza che rischiano di diventare cronici. Con una visione di noi come mai abbastanza bravi ed efficienti, mai al posto giusto nel momento giusto. Sulla lunga piuttosto logorante. Un rischio da non sottovalutare. Una ribellione di cui essere più consapevoli. Una battaglia collettiva, ognuno di noi per quanto può, da continuare a condurre con determinazione.