“La forza di Adolescence? La legittimazione delle emozioni” – Matteo Lancini su Huffington Post

Condividiamo l’articoli scritto da Linda Varlese e pubblicato su Huffington Post il 19 marzo 2025

Matteo Lancini: “La forza di Adolescence? La legittimazione delle emozioni”
di Linda Varlese

Lo psicologo e psicoterapeuta commenta ad HuffPost il successo della mini serie Netflix: “Perché è sempre l’emozione non espressa il movente di qualunque episodio di violenza da parte dei giovani”

Uno dei temi che emerge con chiarezza da questa serie è la legittimazione delle emozioni. Perché è sempre l’emozione non espressa il movente di qualunque episodio di violenza da parte dei giovani”. Il Professore Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e Presidente della Fondazione Minotauro, in uscita con il nuovo libro edito da Raffaele Cortina Editore “Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti” e in scena il 20 marzo 2025 alle ore 20.30 all’Auditorium grattacielo Intesa Sanpaolo di Torino con una reading-performance tratta da libro, ci guida nell’interpretazione di Adolescence, mini serie Netflix che racconta in piano sequenza l’omicidio commesso da un 13enne in una cittadina del Regno Unito, indagando il tessuto sociale, educativo e familiare in cui si sviluppa il delitto e le sue conseguenze. “E’ sempre la fragilità che non trova parole e che quindi diventa agito, contro di sé e contro l’altro, il movente. La vera prevenzione è stare nel dolore dei figli e non fare come invece facciamo, come se essere mamma o insegnante fosse una performance e non un lavoro relazionale e di identificazione con il tuo interlocutore che devi educare e far crescere”, commenta Lancini.

Adolescence racconta una vicenda dolorosa senza giudicare. Il risultato è che lo spettatore riesce ad identificarsi e a comprendere le emozioni e le motivazioni di tutti i protagonisti, compreso l’autore del delitto. Una serie del genere può educare? Può fare da filtro per comprendere la realtà degli adolescenti che appare così complicata?
Negli ultimi anni c’è questo tema: quale è l’influenza di prodotti che potremmo definire artistici, televisivi, culturali e musicali nel modo di essere le persone. Credo che questo tipo di rappresentazioni possono piacere o meno, ma hanno la capacità enorme di far risuonare emozioni che sono dentro di noi. Ti mettono in contatto con la complessità della vita, ma soprattutto delle emozioni umane. Ogni volta che le emozioni complesse prendono forma, e quindi ognuno di noi riesce a riconoscere e a far risuonare emozioni che magari sono anche spiacevoli e che razionalmente neghi, è sempre un fattore positivo. Non saprei dire quanto questa serie, o altre, modificherà il modo di comportarsi di tutti i genitori, ma in linea di massima ritengo che vada a toccare degli aspetti di cui l’essere umano ha bisogno, visto il successo e quindi in qualche modo riesca a complessificare la questione. Magari non riusciranno a modificare il proprio ruolo genitoriale, però la trama emotiva porta a identificarsi con le ragioni dell’altro che è quello che oggi non fa più nessuno, cioè a capire le diverse posizioni che oggi in una società individualista e di massa, noi non capiamo. Compreso il dolore: quello che sta succedendo è che il dolore viene cantato sul palco di Sanremo, descritto nelle serie tv, nei manga, ma i ragazzi dicono di sentirsi soli in mezzo agli adulti e non riescono ad esprimerlo a scuola e in famiglia. Quindi penso che l’aspetto di identificazione sia l’aspetto decisivo: capire che ognuno ha delle ragioni affettive, arrivando addirittura, non a giustificare l’omicidio, ma a cercare di capirne il senso.

Problemi molto complessi vengono fuori molto bene nella serie: non solo incomunicabilità fra giovani e adulti, ma anche l’incomprensione dei linguaggi. Come ad esempio quello di Instagram. Non c’è demonizzazione dei social, quanto l’incapacità dell’adulto di comprendere ed interagire con quel modello, anche per intercettare eventuali criticità e derive violente.

I ragazzi su Internet vanno per ridurre la sensazione di solitudine e di dolore che provano in mezzo agli adulti. Questo implica una nuova visione: accettare internet nella società on life. Bisognerebbe non solo educare e accompagnare i giovani, ma capire anche cos’è. Emerge bene dalla serie, ma viene fuori anche dai fatti di cronaca come quello di Andrea Prospero: nessuno parla del fatto che lui ha pensato al suicidio e non è riuscito a parlarne con gli adulti, parlano tutti dell’altro e di Telegram. Un modo per non identificarsi, per non stare nel dolore dei figli. Il tema è che in questa serie ci sono degli aspetti che riguardano la capacità di identificarsi con il dolore, addirittura di un ragazzo che commette un reato gravissimo. Credo che l’altro aspetto non marginale è capire quale è l’adulto che ne esce meglio: di solito è colui che è autorevole, non perché vieta, non per i paletti, ma perché ha la capacità di identificarsi con il funzionamento dell’altro. Questo ruolo nella serie è svolto dal poliziotto.

Un altro personaggio positivo è la psicologa del centro di rieducazione in cui si trova il ragazzo. Lo spettatore di fronte alle fragilità del ragazzo quasi prova empatia per lui, ma il modo in cui la psicologa lo mette di fronte alle sue responsabilità evidenzia la gravità del delitto commesso
Ancora una volta al centro ci sono degli aspetti che noi non trattiamo mai con i nostri figli, come la fragilità. In questa dimensione riusciamo a vedere chiaramente ciò che molto spesso succede e cioè che i comportamenti violenti e terribili non sono legati a una mancanza di regole, al fatto che i ragazzi hanno avuto troppo o a internet, ma alla loro fragilità. Le violenze che abbiamo visto in questi anni, gli omicidi ad opera dei minorenni, si pensa che non ci sia movente o si dice che i ragazzi vadano alfabetizzati emotivamente. Io penso che sia il contrario: il movente c’è sempre e non è un’alfabetizzazione emotiva che qui esce mancante, ma sono le emozioni che non riescono a trovare parole per essere condivise. Oggi noi dobbiamo puntare tutto sulla relazione prima che succeda l’evento, prima che ci si trovi in galera. E’ sempre l’emozione non espressa il movente. Una fragilità che non trova parole e che quindi diventa agito: contro di sé e contro l’altro.

Nell’ultima scena i genitori si confrontano sull’educazione dei due figli e si chiedono come sia possibile che possano essere così diversi, come abbiamo potuto prendere due strade opposte, una virtuosa, per intenderci, l’altro deviata fino all’omicidio

Bisognerebbe smettere di pensare che i figli dipendono solo dai genitori. Le più grandi scoperte che abbiamo fatto è che i figli vanno trattati sempre come dei figli unici perché innanzitutto nascono con delle caratteristiche diverse, che dipendono dal dna, dal fatto che pur crescendo nella stessa famiglia hanno culture diverse perché oggi i bambini sono sotto un bombardamento di modelli di identificazione multipli. Crescono immersi in un bagno di relazioni con i coetanei e alla cultura del reale, la violenza è reale. La violenza delle nuove generazioni non dipende dai videogiochi dove non c’è un morto vero, ma dalla verità della violenza che proponiamo ogni giorno. Oggi essere un genitore vuol dire identificarsi con i bisogni del figlio, offrire una relazione affettiva in base al loro funzionamento. Il genitore non è un mestiere certo, ma bisogna essere in grado di partire con un modello educativo che tenga conto di chi è l’altro. I figli sono sempre unici e quindi dobbiamo declinare una genitorialità diversa in base al modo di essere, alla personalità che prende spunto da modelli di identificazione anche extra familiari, perché non solo la famiglia ma anche la caduta della comunità educante, la violenza diffusa, i coetanei, i cartoni animati contribuiscono alla costruzione dell’identità.