La misura del dolore

Condividiamo l’editoriale di Loredana Cirillo per il settimanale d La Repubblica.

Ma cosa piangi? Non si piange per niente! Quante volte mi sarò sentita dire questa frase dai miei. Ho imparato prestissimo a ingoiare le lacrime, a trattenere il dolore. A furia di farlo non sapevo più nemmeno io se poi avessi così davvero qualcosa per cui stare male. Forse esageravo e i miei avevano ragione. Vedevo il volto di entrambi trasfigurarsi di fronte alle mie piccole e grandi sofferenze. Non c’era spazio perché le cose andassero male, non si poteva portare a casa un problema. “A tutto c’è una soluzione, un rimedio! Pensa ad altro, distraiti”. Così mi dicevano.

Cosa fa più male del proprio stare male? Cosa fa più male del non trovare senso al proprio dolore, che è lì potente e impossibile da zittire? Su queste domande si arrovella la mente di Sabrina, una splendida, sofferente donna e madre di 45 anni che non ha ceduto fino in fondo al mandato familiare del “non pensiero”. Ha soffocato per molti anni l’esplorazione di Sé, dei suoi vissuti e bisogni più autentici, fino a quando tre figli e un matrimonio vicino al fallimento non la stanno costringendo a rimettere mano a tutta la sua vita e al suo significato.

Potremmo definirlo un inutile rimuginare, il suo dolore, d’altra parte è questo che le hanno detto i suoi da sempre. È questo che vende ed è in testa alle classifiche nella società in cui è nata e cresciuta.

Potremmo dire che la società dell’abbondanza, dell’autocentratura e della crisi dei valori ci ha portati a guardare troppo dentro di noi. Non riusciamo più a godere di ciò che abbiamo, come Sabrina, a cui non manca nulla, e siamo sempre alla ricerca dell’ideale, siamo stati troppo messi al centro dai nostri genitori, per questo rimuginiamo e pensiamo troppo, inutilmente, tralasciando il bello della vita. Sì, può darsi che sia andata esattamente così. Il pensiero critico e la possibilità di mettere in discussione lo status quo, tuttavia, è un dono impagabile che è stato consegnato nelle mani delle donne e degli uomini negli ultimi decenni. Possono davvero diventare il non pensiero, la distrazione, le “nuove”, anzi, antichissime strategie per stare bene nel mondo? Oppure possiamo pensare che vivere a pieno, passi attraverso la consapevolezza di sé e dei propri drammi interiori?