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Condividiamo l’intervista di Eva Elisabetta Zuccari a Tommaso Zanella per Today.it.

“La mia giornata tipo in psichiatria: sono al letto, vago nel nulla del cortile, poi torno a letto”. A parlare è Anna, con disturbo borderline diagnosticato, alle oltre tre milioni di persone che guardano i suoi video sketch su TikTok. Le stesse persone che le chiedono come fa a camminare con le scarpe da ginnastica senza lacci (tolti per precauzione dal personale sanitario) o per quale motivo non ci sono maniglie alle finestre della struttura in cui è ricoverata. Le stesse persone che le scrivono “Fai del tuo meglio”. E a cui lei risponde “Ci provo ogni giorno”. Uno scambio che fa bene ad entrambi: ad Anna, che proprio grazie alla video-confessione di una YouTuber, dieci anni fa, seppe dare un nome al suo malessere, ovvero “depressione” (concetto che la mamma, giorno dopo giorno, continuava a rigettare). E al pubblico, che impara a demolire finalmente i tabù ancora in piedi nel merito dei temi riguardanti la salute mentale.

Sì perché – tra le tante battaglie per i diritti che sono in corso in quest’epoca che vive, mediaticamente e non solo, sotto la la bandiera dell’inclusività – c’è anche quella che mira a “normalizzare” la sofferenza mentale, sia essa un disagio passeggero oppure un vero e proprio disturbo. Da Fedez che ha pubblicato gli audio registrati nel corso di una seduta dallo psicologo (sollevando un vespaio), a Cesare Cremonini che ha parlato per la prima volta della sua schizofrenia, fino a TikTok, piattaforma in cui la “salute mentale” è un un vero e proprio trend, vera e propria crociata dei più giovani. Ma quali sono i benefici  di quello che, nel gergo di Internet, si chiama “sharing is caring” (ovvero “condividere è una carezza”) e quali, invece, potrebbero essere i limiti, oppure i rischi, di tale trend, se ce ne sono? Dall’abbattimento dello stigma alla banalizzazione dei concetti fino alla cosiddetta “estetizzazione del dolore”, ne abbiamo parlato col dott. Tommaso Zanella, psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro di Milano e docente presso la Sigmund Freud University.

Perché è fondamentale abbattere lo stigma della salute mentale

Lo dice la scienza: la propensione della società è stata, fino ad oggi, quella di nutrire un atteggiamento di respingimento nei confronti del malessere mentale. Per questo l’immaginario collettivo odierno si pone l’obiettivo di spogliarlo sì di discriminazione, ma anche di retorica. “E’ un’operazione fondamentale a livello sociale”, spiega Zanella. “Nonostante infatti in alcune realtà sia ampiamente sdoganato il ricorso all’aiuto di specialisti, in altre è ancora molto condannato, soprattutto per quanto riguarda le fasce giovanili”, spiega. “C’è poi un fattore individuale: viviamo in una società che tende a rimuovere il dolore, la sofferenza, il fallimento, soprattutto se legato ai propri figli, perché questo andrebbe contro l’essere bravi genitori. E quindi a volte i ragazzi si ritrovano a vivere nella solitudine e nel segreto di un dolore difficile da poter esprimere. Difficile perché non parliamo di malattia organica”. Sui social network, dunque, “il bisogno tipico della natura umana di socializzare e condividere il dolore – prosegue – si appoggia così anche alla società di oggi, quella dell’immagine e del narcisismo”.

Se la depressione diventa un TikTok: il rischio di banalizzare

Società dell’immagine, appunto. E delle logiche algoritmiche. Ed è qui che si rischia di scivolare in uno dei pericoli a cui si accennava sopra. Quello della banalizzazione dei concetti. Concetti troppo delicati per essere esauriti – seppur nella bontà degli intenti – in quei video da 15 secondi che popolano TikTok, nei quali alcuni professionisti elencano “i 10 sintomi che non sapevi che fossero dell’ansia somatizzata”, oppure “i 10 segnali della depressione”. Segnali in cui chiaramente, tutti (troppi?) sostengono di riconoscersi, come si legge nei commenti in calce, più o meno suggestionati. “Il rischio – spiega Zanella – può essere incorrere nell’eccesso di semplificazione, oppure nella standardizzazione delle risposte, ovvero nell’idea che in rete possano esserci soluzioni valide per tutti. Siamo infatti in un contesto in cui si tende a trovare le soluzioni più rapide e più concrete, ed in cui si riduce sempre di più lo spazio del perché”. Un pericolo rispetto al quale però, stando a quanto sostiene il dottore, il beneficio resta comunque prioritario: i ragazzi, infatti, non si fermano a questo punto, ma “sono poi in grado di formulare una maggior richiesta di aiuto”.

Mai fermarsi all’autodiagnosi

L’autodiagnosi può essere insomma sì una conseguenza, ma arginata laddove ci si rivolge ad un professionista. Ma esiste – ci domandiamo di rimando – la possibilità che un adolescente, utente tipico della piattaforma cinese, scambi un disagio momentaneo, tipico della sua età, per una patologia vera e propria, lasciandosi dunque suggestionare? “C’è per la medicina il paziente Google, quello che arriva già con la diagnosi – risponde il professore – Ed è chiaro che nell’adolescenza è sempre un rischio. Spesso può essere un rischio comunicare direttamente la diagnosi ad un ragazzo, soprattutto se intesa in termini psichiatrici, perché può avere un impatto nella formazione identitaria: può essere un’etichetta a partire dalla quale può definirsi”. Sì perché la cosiddetta “autodiagnosi”, tiene a sottolineare Zanella, è anch’essa prologo di una evoluzione, in quanto “è sempre quel tentativo di dare una forma ad una sofferenza che altrimenti non troverebbe spazio”. E verso cui l’adulto evita di mettersi in ascolto.

“Ho un disturbo borderline. Mia madre non mi ha capita, YouTube sì”

Tra gli adulti che non si sono messi in ascolto, c’è appunto la mamma di Anna. Anna, 30 anni e un disturbo borderline diagnosticato, emblema di quel “sharing is caring” che vive nella bocca e nei post degli influencer posizionati sul tema della salute mentale. Piacentina, origini polacche, cresciuta senza mai aver conosciuto il padre in un’infanzia vissuta accanto ai nonni, si è poi resa conto – una volta ricongiuntasi con la madre emigrata in Italia, all’età di otto anni – che no, non era in quella distanza il problema. E che neanche nel tanto desiderato riavvicinamento c’è stato un incontro di intenti con la mamma, incapace di vedere quel suo dolore di “bambina sempre triste” che, sin dalla tenera età, era capace di “avere brutti pensieri”. “Poi, una sera, mi è apparso questo video di una YouTuber famosa che si intitolava ‘Depressione, la mia esperienza’ e mi sono riconosciuta”, ci racconta. Ed intanto, mentre il virtuale le veniva incontro, i rapporti reali si dipanavano: “Gli amici sminuivano il mio malessere, ma io già all’epoca finivo in pronto soccorso per attacchi di panico che non comprendevo. Ho così cominciato a fare ricerche, ho scoperto i consultori e da lì, col tempo, sono finita in psichiatria. Un percorso iniziato senza avere il supporto di nessuno”.

La diagnosi, la terapia, farmaci che ancora oggi cambiano in base alle esigenze. L’ultimo ricovero in clinica è di questa primavera, quando Anna decide di raccontare le sue giornate su TikTok. Nei primi video camuffa il volto e la voce, attraverso filtri fotografici e vocali, tant’è forte la paura del giudizio. “Il tabù era evidente – confida – tutti mi chiedevano se lì dentro ci fossero davvero i pazzi. Così ho capito che, attraverso i video, potevo sfogarmi io e, allo stesso tempo, spiegare, senza la presunzione di potermi sostituire ad un medico, oltre che essere d’aiuto per qualcuno. Il supporto dei follower mi conforta, sebbene ci separi uno schermo. Mi piacerebbe che la sensibilizzazione diventasse il mio lavoro. E’ bello vivere in un’epoca in cui, soprattutto i più giovani, spronano ad abbattere gli stereotipi”.

C’è un rischio di emulazione? Cos’è la “sofferenza estetizzata”

Ha fatto della sensibilizzazione un mestiere Carlotta Fiasella, 1.7 milioni di follower su TikTok, emblema della lotta ai Dca, ovvero ai disturbi del comportamento alimentare, di cui lei stessa è stata vittima. Innumerevoli le fanpage che le sono dedicate, che la seguono nei balletti e nel suo stile di vita. Ma – ci chiediamo – l’influencer, che per sua natura “influenza” appunto, può arrivare a scatenare paradossalmente un meccanismo di imitazione, di emulazione, anche laddove sarebbe non auspicato? Negli adolescenti soprattutto, intendiamo, target che è ancora, chiaramente, in cerca di se stesso e che può costruire la propria immagine (anche) imitando gli altri. E’ una domanda che ci siamo posti sull’onda di un concetto che ci ha suggestionato (ma che, precisiamo, non ha alcuna riprova scientifica, seppure trovi spazio nel gergo della rete), ovvero quello della “sofferenza estetizzata”. Laddove per “sofferenza estetizzata” si intende la tendenza a raffigurare il disagio mentale in chiave “romanticizzata”: ubiquo ormai l’uso della parola “depressione” sui social al servizio dei meme, anche dove di depressione non si tratta; innata la tendenza, in alcuni casi, a considerare fascinosa la problematicità, se confusa con la trasgressione.

“Per alcuni individui – spiega Zanella – è chiaro che il rischio ci può essere, ma lo ritengo marginale. Perché quello che noi leggiamo come emulazione è in realtà un’espressione di qualcosa che risuona dentro e che non trova altri canali. E vale per adolescenti, ma anche per adulti. E’ quindi importante che le istituzioni facciano un lavoro preventivo”. “Mi vengono in mente – prosegue – tutte le situazioni di autolesionismo, attacchi al corpo, tentativi di suicidio, in cui bisogna evitare tentativi di emulazione: quando viene eccessivamente celebrato qualcuno come un eroe da quel punto di vista, ha pur sempre un certo potere”. Nel caso specifico di Carlotta, e degli influencer che si muovono sullo stesso solco, invece, “parliamo di una ragazza che ha un certo numero di follower e di like e che, quindi, ha un suo seguito, che però non leggo nell’ottica che va a inculcare un nuovo rischio bensì a dar voce ad un disagio sommerso”.

Quanto alle “etichette calderone” di cui sopra, quelle in cui si parla di depressione anche quando tale non è, per intenderci, Zanella risponde: “Esiste il rischio di banalizzare. Ormai tutti hanno ansia, tutti sono depressi e narcisisti. E soprattutto i ragazzi vanno a ruota di questa lettura, che però viene proposta dall’adulto”.

Guardare video sulla sindrome di Tourette provoca l’insorgenza dei sintomi? No.

Nel merito del concetto imitazione, è impossibile poi non ripensare a quell’articolo del Wall Street Journal, pubblicato circa un anno fa, in cui si sosteneva che la fruizione continuativa di video creati sui social da persone con la Sindrome di Tourette potesse provocarne l’insorgenza nei ragazzi che ne erano spettatori. “E’ un articolo che riflette il modello dell’adolescente come piccolo sistema a cui inculcano cose e che non ha capacità di discernimento. E che dimostra come si vada a misurare tutto sui comportamenti, finendo per patologizzarli, anziché andare alla radice. Il rischio è di incolpare la Rete di qualunque cosa, perdendo così di vista la sua funzione evolutiva”.

Cosa sono i “trigger warning” e perché servono a poco

Rete che comincia a mettere in campo una propria etichetta nel merito della salute mentale. Un esempio sono i cosiddetti “trigger warning”, ovvero gli avvertimenti che si iniziano a vedere in calce ai post, ad avvertire della possibilità che un determinato contenuto possa urtare la sensibilità di chi legge. Eppure non basta. “E’ qualcosa che si inserisce nel lato del politicamente corretto, perché altro non è che qualcosa che aumenta l’hype – è convinto  Zanella – E quindi difficilmente poi l’utente non accede a ciò che c’è dopo”. “Più che avvisare prima – propone – forse sono utili indicazioni sul dopo. Mi viene in mente la serie tv ‘Tredici’: all’inizio veniva utilizzato un cartello preventivo ‘attenzione, scene forti e sensibili’, successivamente si è optato per utilizzare un cartello a fine puntata che indicasse al pubblico a chi rivolgersi nel caso di pensieri suicidari”.

Fedez e la società “pornografizzata”

Possiamo dunque affermare che Fedez, attraverso la pubblicazione dei suoi ormai blasonati audio, abbia “triggerato” il suo pubblico, come invece è stato accusato? “Nel caso delle ricadute sulla platea – dichiara Zanella – siamo al 2.0 della tv del dolore”. “E’ chiaro che si colloca nel contesto di un personaggio che fa della celebrazione dell’intimità una bandiera, ma c’è un sociologo, McNair, che parla di una società ‘pornografizzata”, che è un po’ questo: ha tutto valore se reso pubblico, anche ciò che prima era intimo. Se ci rifacciamo a modello educativo con cui siamo cresciuti noi, tutto questo fa storcere un po’ il naso, ma all’interno di questa società dell’immagine, l’intento suo era proprio quello di favorire la condivisione e fare sentire meno solo chi si trova ad affrontare la sua battaglia”.

Fonte: Today.it