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Condividiamo l’intervista di Monica Coviello a Loredana Cirillo per Vanity Fair.

È stata proposta come idea regalo per la festa della mamma. Si tratta di una tazza bianca, con una scritta in nero: «Un po’ la Franzoni la capisco», ed è una creazione di Annagina Totaro che, insieme al compagno Andrea Cardano, ha fondato Piattini Davanguardia, negozio di ceramiche personalizzate con testi irriverenti e ironici, molto apprezzate (la pagina Instagram conta quasi 74 mila follower).

Questa volta, però, il pubblico si è diviso: c’è chi difende la tazza ritenendola un esempio audace di humor nero. E c’è chi ritiene che, questa volta, Piattini Davanguardia abbia esagerato. I creatori della mug si sono difesi dalle critiche spiegando: «Qui nessuno sta scherzando su una tragedia, tanto meno sta facendo ironia. Si tratta di una riflessione, punto. Avere una crisi d’ira nei confronti di un figlio è lecito così come tante mamme si sono trovate nella situazione di aver pensato “io lo uccido”. Noi “un po’” la Franzoni la capiamo ma non giustifichiamo quello che ha fatto. Qui nessuno vuole incitare nessuno a uccidere esseri umani. Amen».

Per Loredana Cirillo, psicologa e psicoterapeuta, socia dell’istituto Minotauro di Milano, però, quella tazza non è altro che «vergognosa e disgustosa», come ci spiega. «C’è di mezzo un bambino ucciso, un fatto umanamente drammatico. E mettere i drammi al servizio di un prodotto commerciale, da un punto di vista etico, è ributtante. Lo sappiamo: questa è una società pornografizzata, in cui qualsiasi aspetto del vivere viene celebrato e messo in mostra, ma questa iniziativa è un oltraggio».

Quella sulla mug non può essere letta come una frase liberatoria?
«Se stiamo parlando di legittimare un vissuto sempre esistito, vale a dire l’ambivalenza della maternità, e di dare spazio all’espressione del senso di incompetenza e di fatica che si provano quando si diventa madri, io penso che si debbano trovare altri canali e altre formule per farlo».

Il ruolo di madre è difficile, e ammetterlo è ancora un tabù.
«Certo: è in atto una pericolosa tendenza a idealizzare l’arrivo di un figlio, come se fosse un’esperienza meravigliosa e limpida in ogni sua sfaccettatura, ma il bambino reale piange, sta male, soffre, interrompe il ménage esistenziale della coppia e soprattutto della mamma, che dovrà faticare anche solo per trovare il tempo di fare una doccia. Bisogna prestare molta attenzione alla madre, perché è un soggetto fragile e destabilizzato da un cambiamento molto impattante».

Forse quella scritta aveva proprio quell’obiettivo.
«C’è un grande bisogno di dare spazio ai sentimenti delle mamme, ma questa operazione mi sembra semplicemente di pessimo gusto. Dobbiamo trovare un altro modo per parlare di depressione post partum e difficoltà connesse al ruolo materno. Possiamo anche farlo con una tazza, ma lanciando altri messaggi, come ad esempio “Io sono fragile”. E non basta: bisogna parlarne ai corsi preparto, negli ambulatori ospedalieri, in tutti i contesti, lavorativi e scolastici, sui giornali, nei libri, con la moda e nella pubblicità. È necessario educare alla fragilità e legittimare il dolore e la convivenza di forza e fatica».

«Mi viene voglia di uccidere mio figlio». Una madre può dirlo per sfogarsi?
«Potrebbe anche essere un modo di sfogarsi, ma bisogna capire fino a che punto questo pensiero è presente nella sua mente. È più liberatorio e utile ammettere che non ce la si fa, che si ha bisogno di aiuto, questo sì. Anche perché, altrimenti, si rischia di maleficare il proprio figlio come indegno e sbagliato, ed è pericoloso – sia per la relazione con il bambino che per la sua crescita -, proiettare tutte le fatiche e il sacrificio su una creatura che, tra l’altro, non ha chiesto di essere messa al mondo».