Condividiamo l’intervista di Valentina Santarpia a Matteo Lancini per il Corriere della Sera.
I risultati Invalsi anche quest’anno certificano una fragilità delle competenze degli studenti, legata alla pandemia. Ma quanto durerà l’effetto Covid? «È perenne», sentenzia Matteo Lancini, psicologo, presidente dell’associazione Minotauro ed esperto di tematiche relative allo sviluppo e alla crescita.
Dobbiamo rassegnarci?
«Sì, al fatto che dopo il Covid nulla tornerà più come prima, è una trasformazione di sistemi di rappresentazione e di apprendimento che si sono modificati completamente. C’è stato un tale cambiamento in termini di prospettiva e di vita, di rapporto con la natura e con i sistemi tecnologici, anche per il modo in cui l’abbiamo gestita, che niente potrà essere identico. E poi: già prima del Covid gli Invalsi avevano in parte perso di significato, e quindi, pandemia o no, avremmo comunque assistito a un cambiamento in senso negativo. Ma il Covid ha evidenziato come siano una formula non più adatta, che andrebbe affiancata a forme di valutazione più sintoniche al mondo universitario e del lavoro. Continuiamo a verificare apprendimenti nelle singole materie, da diversi anni, senza valutare le competenze necessarie a muoversi».
Cosa userebbe per valutare?
«Non mi permetto di fare la parte dell’esperto, ma basterebbero un paio di giorni a capire come inserire la valutazione del problem solving, dell’uso del digitale, di internet, dell’ intelligenza artificiale, quello che serve. Non dico che gli apprendimenti che si valutano non siano importanti, ma sono sicuro che molti di questi ragazzi che manifestano scarsi risultati agli Invalsi poi potranno riuscire all’università più di quelli che hanno ottenuto ottimi risultati».
Sempre più si parla di warm cognition , l’apprendimento che si modifica in base alle emozioni che proviamo nell’immagazzinare informazioni e viceversa, quelle che proviamo nell’apprendere. In questo senso, il Covid ha fatto da spartiacque?
«Sì, i ragazzi hanno percepito una fragilità degli adulti e un’incapacità di gestirla. E quando le scuole sono state riaperte, invece di fare i conti con una vicenda mortale, che ha messo in discussione il senso della vita, tutti si sono concentrati a parlare del cellulare, e dell’abuso di internet. Non si sono accorti che c’era l’esigenza di ricostruire un sistema, dove gli adulti dovessero essere al servizio della crescita, e dove i ragazzi potessero pensare di essere in grado di costruire un futuro attraverso le relazioni, che sono fondamentali».
In che senso?
«Più che attraverso le emozioni, i ragazzi crescono attraverso le relazioni . Esempi come la scuola delle responsabilità, il cosiddetto liceo senza voti, tracciano una strada da cui non si torna indietro. Gli adulti di riferimento, come lo sono i docenti, non possono solo portare avanti competenze nel senso tradizionale senza accorgersi delle direzioni in cui vanno mondi e mercati del lavoro».
Il docente non ha perso autorevolezza?
«Non proprio, anzi, la scuola è diventata il posto dove si costruisce una controcultura rispetto a una società molto competitiva, il docente è una figura di riferimento significativa rispetto alla sottocultura di internet e dei genitori. La scuola è diventata il luogo dove bisognerebbe costruire un ambiente di straordinaria crescita, puntare sul lavoro di gruppo, valutare l’errore come processo di apprendimento. Quando sento i docenti o i presidi o i genitori che parlano con orgoglio delle bocciature, inorridisco. Come può un ragazzo che rimane indietro, umiliato dalla mortificazione, migliorare nell’esperienza di crescita? Così si trasmette sempre più l’idea che a scuola bisogna solo portare a casa il malloppo, cioè i voti sufficienti. L’idea di lasciare indietro chi arrancava andava bene 20 o 30 anni fa, non ora nell’epoca del post narcisismo».
Oltre ai risultati negativi agli Invalsi, ci aspettiamo anche un aumento dei Bes?
«Sì, ahimé, ma invece di accettare che tutti hanno un bisogno educativo speciale si cercano nuove categorie per definirci: e invece bisognerebbe guardare sempre all’individuo, al suo funzionamento, ai suoi punti di forza e debolezza, al punto da cui parte e al traguardo che raggiunge rispetto alla base di partenza, tutte cose che gli Invalsi non valutano».
Il fallimento alle superiori in italiano e matematica preoccupa?
«Sì, ma esattamente come mi preoccupa il fatto che mediamente oggi si ragiona o si scrive peggio di 25 anni fa. Non significa che questi ragazzi, espressi in una relazione positiva, non possano esprimere le proprie potenzialità. Ma che ci sia un adattamento delle generazioni alla nostra società: quella era un contesto severo e chiuso dove l’unico modo di accedere al sapere si trovava nella scuola e mio padre, del ‘38, ancora ricorda tutte le nozioni del liceo».
Ma era anche una formula datata, dove l’apprendimento passivo prevaleva sulla necessità di un apprendimento intelligente.
«Certo, ma lì c’erano anche tanti altri aspetti, come la possibilità di riscattarti rispetto alla famiglia. Il processo di apprendimento parte anche dalla motivazione».
Il covid l’ha fatta perdere?
«No, ma con il Covid è scattato un allarmismo: sono tutti ignoranti per colpa del Covid? Piuttosto, chiediamoci se noi siamo ancora in grado di insegnare alle nuove generazioni o andiamo a cercare l’Eden perduto. I giovani di oggi stanno messi peggio perché manifestano tendenze all’autolesionismo, non perché sanno meno bene l’italiano».