Le lacrime di Amoroso, noi e il cyberbullismo

Condividiamo l’editoriale di Matteo Lancini per La Stampa

La giornata mondiale contro il bullismo e il cyberbullismo dovrebbe rappresentare una straordinaria occasione per riflettere sulla società che abbiamo costruito e su quali modelli di identificazione proponiamo ogni giorno. Bisognerebbe avere il coraggio di responsabilizzarci e di chiederci se davvero convenga sostenere che la violenza giovanile, di genere ma non solo, dipenda dai social, dai videogiochi, dai siti pornografici e dal fatto che le giovani menti non distinguano il reale dal virtuale. Mi sembra che si tratti di una tendenza a dissociarsi dalla realtà da parte di adulti che proiettano sulle nuove generazioni ciò che non riescono a vedere di sé e del proprio modo di comportarsi. Sia che si tratti di violenze che nulla hanno a che fare con il bullismo, come i terribili abusi sessuali di gruppo, sia che si tratti di fenomeni di prevaricazione a scuola o in rete, l’insopportabile retorica del “è tutta colpa di internet” consente agli adulti di continuare a fare ciò che gli pare e di non assumersi alcuna responsabilità. Nessun limite all’utilizzo di internet per gli adulti, settimane detox per i giovani e nascita di comitati genitori che si accordano sull’età esatta a cui regalare lo smartphone ai propri figli, invece di riunirsi per decidere di spegnerlo loro.

Alcune riflessioni. La società odierna si chiama “onlife”, l’hanno creata gli adulti e non esiste più distinzione tra vita reale e virtuale. Lo smartphone è sempre in mano ad adulti che lo utilizzano sia per riprendere figli e studenti impegnati in recite o feste scolastiche di fine anno, sia per gestire la relazione tra scuola e famiglia, dominata dai registri elettronici e dai gruppi di whatsapp dei genitori, dove le maldicenze periodiche nei riguardi della madre che non la pensa come te, si chiamano, secondo la scienza, episodi di cyberbullismo. La comunicazione tramite social, poi, è diventata la modalità elettiva per interrompere un rapporto di coppia, non solo se sei un personaggio dello spettacolo ma anche se hai importanti incarichi istituzionali: prima lo si dice ai social, poi al diretto interessato e ai figli. Attraverso i social, molti educatori e psicologi lanciano appelli perché i genitori limitino l’utilizzo degli stessi social ai figli, mentre loro indicano nella copertina del proprio libro in uscita il numero impressionante di follower acquisisti e gli indirizzi dei propri canali social. La prevaricazione dell’altro a favore di telecamere è una delle modalità più diffuse per aumentare l’audience e meritarti un posto sull’homepage dei siti d’informazione più noti. Più la fai grossa, più sei violento nell’utilizzo delle parole, più radicalizzi le posizioni, più si parlerà di te in internet e più sarai invitato, famoso.

Nessuno dovrebbe fare la morale all’altro perché troverà sempre qualcuno più puro di lui. Questo lo so benissimo, è un insegnamento che mi porto dietro dall’infanzia. Infatti non intendo fare la morale a nessuno, ma la nostra dissociazione sta rasentando l’ipocrisia. I valori si trasmettono con il comportamento, non chiedendo ai figli di spegnere il cellulare a tavola e a scuola. Chiudiamo i gruppi di whatsapp genitoriali e vietiamo l’ingresso a scuola dello smartphone a insegnanti e genitori. Avviamo un processo di alfabetizzazione emotiva e digitale negli adulti. Oppure continuiamo così, chiediamo a loro di non prevaricare l’altro e di disconnettersi, così possiamo continuare a banchettare quotidianamente su internet e non rinunciare a niente.