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Condividiamo l’editoriale di Matteo Lancini per La Stampa.

Mentre la storia giudiziaria della madre che è accusata di un doppio infanticidio farà il suo corso, si può provare a dare senso a una notizia che suscita reazioni enormi in tutti noi. Provare a dare senso non coincide necessariamente con l’individuazione delle cause. Si potranno formulare ipotesi, ma neanche chi ha incontrato e incontrerà l’imputata potrà affermare con certezza se l’eventuale doppio omicidio sia attribuibile alla giovane età della madre, alla sua storia di figlia abbandonata e adottata, alla nascita più o meno voluta dei propri figli o a chissà quale altro evento della sua storia individuale. La ricerca della causa domina una società dove le complicatissime e privatissime storie di ognuno di noi e del dolore umano vengono spesso rimosse, negate, a favore di una semplicità che ci consente di allontanare dal nostro pensiero gli aspetti più angoscianti della vita, proiettandoli sull’altro e sulle cause che l’avrebbero reso così terribile.

Nella mia professione ho incontrato centinaia di madri, le quali hanno provato in tutti i modi a spiegarmi ciò che per un uomo è impossibile sperimentare e comprendere fino in fondo: l’esperienza della gestazione, del parto e della maternità. Chi la definisce semplicemente straordinaria, chi devastante, chi superiore alla sperimentazione dell’orgasmo, chi terrorizzante, chi una straordinaria miscela di emozioni indicibili. Tutte concordi nel sostenere che mettere al mondo un figlio o una figlia e prendersene cura nei primissimi mesi, rappresenti qualcosa di totalizzante. Il piccolo essere umano nasce particolarmente immaturo e la madre è costretta dalle richieste primarie del neonato a sacrificare buona parte dei propri bisogni, i propri ritmi quotidiani tra cui quello circadiano del sonno e della veglia.

Ecco, nella società dell’ideale, delle star televisive e di Instagram che manifestano un ritorno alla forma fisica precedente alla gestazione e al parto in tempi miracolosi, dei sempre sorridenti bebè e bambini spammati sui social, bisognerebbe ricordarsi che mettere al mondo un piccolo essere umano non è solo un’esperienza meravigliosa. Può accadere di intristirsi, di deprimersi, di sfiancarsi enormemente. La bambina e il bambino, quelli reali, piangono, urlano, strepitano per diversi motivi tutti da intuire, si svegliano e sono spesso pieni zuppi di urina e feci, che a noi piace tanto chiamare pipì e pupù ma che devono comunque essere rimosse il prima possibile. Oggi più che mai, in un contesto sociale sempre più performante, prestativo, caratterizzato dalla rimozione delle afflizioni umane, è importante riconoscere la fatica che una donna può sperimentare nel momento in cui diventa madre. Bisognerebbe parlarne non solo nei corsi preparto ma in ogni luogo dove sia nostra intenzione tenere vivo l’esame di realtà, la convinzione che la fragilità umana esiste e che pervade anche l’evento più atteso, quello che garantisce la sopravvivenza della nostra specie.

Non si dovrebbe mai dimenticare che il parto è un evento di grande delicatezza, dove convivono la vita e la possibilità di morire, ancora oggi, anche se molto meno rispetto al passato, grazie alle straordinarie evoluzioni della scienza medica. Bisognerebbe affiancare la fragilità umana e materna, non solo attraverso iniziative concrete di sostegno alla maternità che contrastino il venire meno di una rete di supporto sociale oramai quasi scomparsa, ma anche attraverso il riconoscimento che la relazione preziosa tra madre e neonato non è solo incantevole e deliziosa, ma dolorosa e necessaria, tormentata e intensa, vitale e fragile.