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Condividiamo l’editoriale di Matteo Lancini per Avvenire.

Oggi abitiamo in una società onlife, l’abbiamo inventata e alimenta noi adulti e non ha più alcun senso continuare a non accettare questo dato di fatto: non esiste più distinzione tra vita reale e vita virtuale, tra esperienza reale ed esperienza virtuale. Intemet è come la vita, anzi è la vita, in cui succede e può succedere di tutto. Interroghiamoci pure su come sia stato possibile che l’essere umano facesse questa fine, ma, nel frattempo, concentriamoci su come aiutare e sostenere le nuove generazioni a vivere in questo presente, a immaginarsi un futuro, a individuare e allenare i propri talenti, a realizzare se stessi e a dare forma al proprio vero Sé, nella società onlife. Il videogioco, per esempio, può essere moltissime cose, non è detto che sia solo una dipendenza come a molti piace pensare. Il videogioco è, prima di tutto, un gioco e il gioco, anche se non si è ancora capito bene fino in
fondo perché, è un’esperienza che piace non solo agli uomini, ma anche ai nostri tanto amati animali, nonostante non sia, almeno apparentemente, un’attività necessaria, indispensabile. Come ipotizzano alcuni neuroscienziati, il gioco potrebbe rappresentare un modo per allenarsi a controllare e a gestire l’imprevisto, un’esperienza in cui l’organismo modula il proprio ambiente fisico e sociale per massimizzare il potenziale produttivo delle sorprese, degli eventi inattesi, di cui, come ben sappiamo, la vita è lastricata. Il videogioco è utilizzato nei programmi di riabilitazione e di sostegno rivolti a coloro che hanno disturbi specifici dell’apprendimento, e nel trattamento di altre importanti disfunzioni, perché agisce sul cervello – non solo per danneggiarlo, come a qualcuno piace pensare -, aumentando, per esempio, la sostanza grigia di alcune importanti aree e strutture cerebrali (ippocampo, corteccia prefrontale dorsolaterali e cervelletto). In altri casi, il videogioco è utilizzato in psicoterapia un moderno psicodramma che consente di accedere alle proprie emozioni e cognizioni, al funzionamento profondo di sé (…). Queste campagne non solo non hanno mai funzionato, ma rischiano di alimentare la percezione nelle nuove generazioni di un’adultità inconsistente, sempre meno significativa e autorevole. Vietare, limitare, togliere, ecco i mantra rassicuranti di chi non riesce a guarire dalla patologia dell’azione e convincersi che invece siamo chiamati a educare e ad aiutare a gestire i rischi e la complessità di una società ipertecnologica.

Ecco quello che servirebbe, e serve, davvero ai nostri figli e studenti, ma siccome è impegnativo, meglio la soluzione prêt-à-porter, meglio parlare di divieti, peraltro non attuabili e,
dunque, non attuati: smartphone a scuola, smartphone ai figli, accesso ai social prima di non si sa quale età. La solita società dissociata, una farsa dell’adultità. Come al solito ai figli e agli studenti vengono fatte richieste, non offerte. Le polemiche sull’intelligenza artificiale che avanza, sulle nuove chat di intelligenza artificiale che si diffondono su Intemet rischiano di riproporre il consueto schema, già visto e rivisto. Come sostenuto anche da giornalisti competenti, queste chat si vietano perché il divieto è comodo, rassicurante e rende popolari, ma così come è accaduto per i pericolosissimi siti proanoressia o prosuicidio, non basta vietarli e chiuderli, perché ricompaiono a livelli più profondi della rete e la loro chiusura non risolve la tensione di ragazze e ragazzi a difendersi dal dolore ricorrendo ai disturbi della condotta alimentare e ai gesti autolesivi e suicidali. Desidero essere chiaro: sono talmente favorevole alla regolamentazione di ciò che accade in rete, che vorrei che Intemet fosse chiuso per sempre, ma il fondamentale e complicatissimo compito di regolamentare spetta ai politici; a noi genitori, insegnanti, educatori e psicologi resta il compito di aiutare e sostenere le nuove generazioni a muoversi in questa realtà. La rivoluzione va governata, altrimenti finiremo con il subirla, lo sanno tutti e tutti lo dicono sin da quando sono bambino. Governare, però, è associato troppo spesso a vietare e impone, troppo poco, invece, si declina come autorevolezza di chi intende educare e responsabilizzare le nuove generazioni costrette a vivere in Internet.

Oggi con privazioni, limiti e divieti, sostenuti dalla favoletta che i “no, soprattutto quelli che fanno comodo a noi e placano le nostre ansie e angosce di ruolo, servono a crescere, ci vantiamo di educare, mentre in realtà chiudiamo gli occhi, non vogliamo vedere. I ragazzi e le ragazze, invece, hanno un enorme bisogno di essere visti per quello che sono e per quelle che sono le loro necessità evolutive all’interno del contesto che abbiamo creato. L’intelligenza artificiale, come ormai si legge da più parti, può manipolare la mente, l’opinione
pubblica e porta con sé evidenti problemi di privacy e occupazionali. Ma davvero pensiamo che l’intervento adulto davanti a tale complessità possa limitarsi al controllo dell’utilizzo
ch e ne fanno e ne faranno i giovani a scuola, a casa e in ogni luogo che frequentano e che frequenteranno, dato che ormai viviamo in un mondo iperconnesso? Il dibattito sull’intelligenza artificiale che spaventa, ma che non dovrebbe farci paura se è l’uomo a governarla o forse è proprio per questo che dovrebbe farcene: ecco di cosa si dovrebbe discutere in famiglia e a scuola. Invece, c’è chi continua a parlare di cellulari spenti a scuola e non si preoccupa di far accedere il popolo scolastico italiano a Intemet, sostenendo che la rete sia la nuova cocaina, mentre la cocaina, quella vera, scorre a fiumi nelle nostre città (vedi le acque reflue di Milano e di altre metropoli) e i ragazzi devono decidere ogni sera se sniffare o no, dato che le sostanze si trovano ovunque. Nessuno è mai riuscito a limitare davvero il consumo di droghe attraverso il controllo, figuriamoci quello di Internet.

Si deve educare, fare prevenzione, non solo informare ma responsabilizzare e farsi carico del funzionamento psichico e affettivo delle nuove generazioni; bisognerebbe fare gli adulti. Una competenza e una serietà adulta che dovrebbero governare anche le attuali e future campagne di sensibilizzazione e prevenzione degli incidenti stradali.
Da decenni si susseguono proposte e comunicazioni preventive che puntano esclusivamente sull’informazione e che intendono promuovere tra i giovani e i giovanissimi il rispetto delle norme stradali e una maggiore consapevolezza rispetto agli enormi rischi di una guida sotto effetto di alcol e droghe. All’ennesimo fine settimana, caratterizzato da terribili incidenti stradali mortali o da sfide a cavallo di potenti ciclomotori organizzate in viali di periferia trasformati in autodromi, la domanda che spesso si pongono gli adulti, e mi sottopongono i giornalisti, è la seguente: perché i ragazzi sono così irresponsabili e non pensano alle conseguenze tragiche dei loro comportamenti? Si ritiene che alla base di questi comportamenti ci siano l’onnipotenza e il mancato riconoscimento delle conseguenze delle proprie azioni. In realtà, ci troviamo quasi sempre di fronte a condotte autolesive
e autodistruttive, le cui ragioni profonde sono da ricercare in un’assenza di prospettive di vita attuali e future, che spinge ad abbassare la soglia dei limiti necessari a garantire la propria e altrui sopravvivenza. Sono condotte parasuicidarie e, a volte, veri e propri suicidi mascherati. Sono comportamenti a rischio, drammatici segnali di sofferenza, generati dal proprio stato mentale e affettivo. Le campagne di sensibilizzazione alla guida sicura dovrebbero quindi essere accompagnate da interventi preventivi che affrontino ogni giorno a scuola il tema della morte e il crescente aumento di pensieri e gesti suicidare che caratterizzano le nuove generazioni. Il compito dell’adulto è quello d’informare ma anche quello di promuovere occasioni di elaborazione di tematiche drammatiche e difficili anche da pensare, ma attualmente presenti nella mente di molti adolescenti e giovani adulti. Prevale, ancora una volta, la tendenza a licenziare il dolore. Viviamo in quella che da tempo è definita la società algofobica, intesa come metafora di una realtà dove si tende a rimuovere qualsiasi forma di sofferenza. Una società dove gli adulti non r conoscono l’aspetto ineludibile e fondativo del dolore umano, dove si tende a negarne la portata, fino a sostenere che gli incidenti stradali giovanili dipendano dal fatto che i ragazzi e le ragazze non conoscono le norme del codice stradale, non sanno che la guida sotto effetto di sostanze alteranti è molto meno attenta e precisa, non sono in grado di controllare le proprie azioni a seguito di un’onnipotenza cerebrale, ulteriormente instupidita da social e videogiochi. Forza
adulti, è arrivato il momento di avere coraggio, di contrastare le nostre fragilità e di andare alla riscossa. Purtroppo, più ragazzi e ragazze di quanto ci piaccia pensare non hanno
molto da perdere, sentono di non avere un futuro e sentono battere dentro di loro in modo sempre più flebile il sentimento della speranza; per questo guidano senza limiti, non mangiano o mangiano all’eccesso, si ritirano in casa, si tagliano e vogliono morire, altro che dipendenze e devianze da normare con divieti. Forza adulti fragili, uniamoci in una
“social catena” di leopardiana memoria e affrontiamo la realtà, responsabilizziamoci, non rifugiamoci più nella realtà virtuale degli ultimi anni, la panacea di chi non sa più cosa fare e sostiene di aver capito che Intemet e la pandemia sono la causa del mal di vivere delle nuove generazioni.

Ogni agire dell’adulto, oggi più che mai, richiede che dietro all’azione educativa ci sia un pensiero, un ragionamento non solo razionale ma anche affettivo. Li’ntegrazione del
pensiero con l’azione è il compito dell’adulto odierno, all’interno di una società in cui sempre più spesso è richiesta la soluzione del problema piuttosto che una riflessione sul senso, senza poter mai fermarsi e provare a comprendere quale sia la ragione sottostante al comportamento di un figlio odi uno studente, a partire da chi è quella persona, da chi è quel figlio o quello studente.