Riportiamo l’articolo di Lucia De Ioanna de La Repubblica sui primi incontri svolti da Matteo Lancini nell’ambito dell’iniziativa della Regione Emilia Romagna “Genitori e adolescenti nell’epoca di internet e del narcisismo”.
In quali acque navigano gli adolescenti di oggi?
Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell’associazione Minotauro di Milano, autore di diverse pubblicazioni tra le quali Abbiamo bisogno di genitori autorevoli. Aiutare gli adolescenti a diventare adulti (Mondadori), ha presentato a Parma, nel corso dell’incontro Genitori influencer. L’adulto autorevole ai tempi degli influencer e degli youtuber. Una mappa per orientarsi rispetto al complesso e spesso insondabile arcipelago-adolescenza, fornendo a docenti e genitori strumenti utili per illuminarne i fondali, spesso difficilmente raggiungibili.
L’Emilia Romagna, osserva in apertura dell’incontro Lancini, è l’unica regione in Italia ad essersi dotata di un Piano-adolescenza: una scelta coraggiosa e lungimirante che manifesta attenzione ed impegno verso una generazione della quale solitamente ci si accorge solo quando accadono fatti di cronaca eclatanti.
La finalità del ciclo di incontri Genitori e adolescenti nell’epoca di internet e del narcisismo, in programma dal 24 settembre fino al 6 novembre, incontri promossi dalla Regione in collaborazione con l’Istituto Minotauro, è quella di aiutare i genitori a comprendere meglio come comportarsi con i propri figli per sostenerli nella crescita, fornendo chiavi di lettura e strumenti interpretativi che non siano riduttivi e banali ma adatti a affrontare la complessità di una sfida impegnativa.
Presenti all’Astra l’assessore ai Servizi educativi Ines Seletti, Fabio Vanni, dirigente psicologo dell’Usl di Parma e Roberto Abbati del Centro per le famiglie di Parma.
L’adolescenza rappresenta una nascita in senso sociale per i ragazzi: in che modo un contesto come quello odierno, connotato da sovraesposizione, narcisismo e forte competitività, può condizionare questa seconda venuta al mondo?
“L’adolescenza è una fase caratterizzata da compiti evolutivi ineludibili che sono sempre gli stessi, e sono, come dice, quelli legati alla nascita come soggetti sociali. Quello che cambia è il contesto: se in passato si arrivava all’adolescenza dopo un’infanzia governata dalla famiglia normativa tradizionale, che determinava il cosiddetto adolescente edipico ossia un ragazzo che doveva crescere per opposizione alle norme, oggi la trasgressione non esiste più, si cresce per delusione. Il bambino ha un’infanzia ricca di aspettative ideali, una famiglia affettiva che lo invita a esprimersi, lo sostiene nelle amicizie e lo segue in tante attività al punto che, quando il bambino entra nell’adolescenza, il nodo critico starà nel conflitto tra le aspettative ideali molto elevate sviluppate nell’infanzia e il dato di realtà di quello che il ragazzo è diventato. Il conflitto non è più tra norma, Super-io e Io ma tra ideali dell’Io talmente elevati che spingono gli adolescenti a non sentirsi mai sufficientemente belli ed adeguati”.
E’ possibile contrastare l’influenza dei modelli narcisistici e competitivi che, usando un’espressione di Luigi Zoja, mettono al centro il sé e producono “la morte del prossimo ?”
“Viviamo all’interno di una società molto individualista dove il sé è al primo posto: oggi contrastare certi modelli educativi non può limitarsi, come credono molti genitori, al togliere i videogiochi o lo smartphone ma deve puntare sulla capacità di proporre modelli a contrasto di questa sottocultura che vede nel sé e nell’io i destinatari di un obiettivo di successo da perseguire a tutti i costi. In questo senso abbiamo una contraddizione perché da un lato diciamo di volere limitare questo modello competitivo ma dall’altro lato la scuola si basa ancora sul voto e sulla bocciatura mentre i genitori vivono come drammatica ogni sconfitta del figlio, la sua mancata popolarità o un insuccesso scolastico. Come genitori, bisognerebbe cominciare ad interessarsi un po’ di più dei figli degli altri, dei ragazzi più fragili e smetterla di guardare agli altri ragazzi solo in quanto strumenti per colmare la solitudine dei nostri figli. In questo senso, un’altra trasformazione importante delle mappe emotive riguarda il fatto che il sentimento della solitudine è stato messo al bando, negato: i genitori sono molto impegnati durante l’infanzia dei loro figli a far sì che i bambini non siano mai da soli, che abbiano molti amici e siano sempre impegnati in diverse attività. Per contrastare l’individualismo si deve partire dal dare maggiore attenzione ai figli degli altri come avveniva nel passato quando la genitorialità era diffusa e il modello educativo aveva un senso collettivo. Dare tutta la colpa alla cultura massmediatica, a internet e al telefonino è sbagliato. Genitori e docenti dovrebbero iniziare a mettere in discussione il loro ruolo: esistono delle scelte che sia a livello familiare sia a livello scolastico si fa fatica a modificare”.
Quale è il legame, se esiste, tra crollo dell’ideale narcisistico, ritiro sociale e dipendenza da internet?
“Il ritiro sociale è un fenomeno in crescente diffusione ma non bisogna sovrapporlo a quello della dipendenza da internet. Quando il ragazzo cresce, il suo disagio è spesso legato al senso di bruttezza e di mancata popolarità, alla delusione rispetto alla propria fisicità: per questo l’adolescente attacca se stesso e non l’altro da sé. L’attacco è rivolto verso il proprio corpo che viene ritirato dall’arena sociale per sottrarlo alla competizione avvertita come troppo dura. In altri casi, i ragazzi mettono in atto il conflitto con il corpo attraverso forme di autolesionismo o sviluppando disturbi della condotta alimentare. La rete costituisce un ambiente in cui gli adolescenti crescono anche in modo creativo ma può diventare il rifugio davanti a delle crisi. Internet non è la causa della reclusione sociale e della disconnessione dal mondo: i ritirati più severi non usano internet. In qualche modo, la rete è una difesa e rappresenta anche un’automedicazione di fronte a questo crollo dell’ideale, arrivando in alcuni casi a scongiurare addirittura dei break-down psicotici. Oggi, una delle prime domande che facciamo ai genitori, quando ci dicono che il loro ragazzo è ritirato severamente, è questa: “mi dica che almeno attraverso i videogiochi è in contatto con qualcuno. Altro che limitarsi a pensare che sia internet ad avere portato fuori dalla società della competizione e dell’individualismo questi ragazzi! Quello che abbiamo creato è questo: se non ti senti bello e popolare, se i coetanei che oggi hanno un potere orientativo enorme ti dicono che non sei all’altezza, allora scegli di nasconderti. Il ritiro sociale è una forma di suicidio sociale proprio nel momento in cui dovresti nascere socialmente”.
Quali sono le azioni educative efficaci di un adulto che voglia essere autorevole sostenendo la crescita dei ragazzi durante l’adolescenza?
“Oggi il compito dell’adulto autorevole non sta nel controllare, limitare, bocciare – azioni che esprimono solo angosce adulte – ma sta nel sostenere ragazzi fragili emotivamente che hanno nella delusione il loro tema. Il compito oggi è educare al fallimento che è molto diverso dal mortificare. Quando sento dire che per educare al fallimento boccio un ragazzo o lo limito togliendogli il telefono rispondo che così non funziona: educare al fallimento è una vicenda complessa che implica la capacità di tollerare il fallimento dei genitori stessi. Si dovrebbe costruire una alleanza tra scuola e famiglia ripensando la relazione con i propri adolescenti che non sono più i soggetti edipici di un tempo e quindi vivono lo sguardo di ritorno dell’adulto dandogli molta importanza: gli insegnanti possono creare delle condizioni molto importanti per la crescita anche se spesso non ne sono consapevoli. Oggi sta anzi tornando ad affermarsi l’idea che la vera autorevolezza del docente stia nel potere del voto e della bocciatura. Credo che si dovrebbe dire il contrario: dato che non si riesce ad essere autorevoli utilizzando la relazione educativa appassionata ci si difende dicendo che l’unico modo per educare i ragazzi è quello di bocciarli o valutarli negativamente. La valutazione è fondamentale ma non si identifica con i voti: le valutazioni più importanti non sono chiuse in un voto né in una bocciatura o in una promozione ma stanno nello sguardo di ritorno dell’adulto che ti spiega, in modo serio e rigoroso, quali sono i tuoi limiti, ti spiega chi sei tu, non chi sei tu rispetto al tuo compagno. Nel caso del bullo, ad esempio, si deve smettere di credere che i suoi attacchi siano rivolti verso il diverso: il bullo attacca il simile, ciò che di simile a sé vede nell’altro e che non tollera ossia la sua stessa fragilità. Sospendere un bullo da scuola non produce nulla di buono. Se non ci si prende carico del compito complesso di insegnargli a stare accanto alla propria fragilità, si manca il bersaglio. L’adulto autorevole deve testimoniare anche il fallimento, perché questo fa parte della crescita, mettendosi accanto al dolore del figlio, senza pensare di doverlo cancellare ma condividendolo in uno spazio di ascolto: se il ragazzo trova questa apertura, sarà più difficile che compia gesti estremi o che abbia pensieri di morte. Non si deve avere il timore di dare un nome alle cose perché chiamare le cose per nome crea la condizione perché i ragazzi possano poi esprimersi: se sono di fronte a un ragazzo che soffre devo domandargli se ha pensato di morire. La morte è un tema che viene negato ma gli adolescenti devono invece sapere che è possibile trovare ascolto e potersi esprimere con gli adulti di riferimento”.