Condividiamo l’articolo di Linda Varlese pubblicato da huffingtonpost
Nella fascia dei giovani 25-34 anni, si registra un +10,4% e 1,8 milioni di confezioni vendute di antidepressivi. E anche fra i giovanissimi 15-24 anni si nota un aumento del 9,8%. Lo psicologo ad HuffPost: “Dipende dai modelli di presa in carico della sofferenza. Domandiamoci che scuola proponiamo, che futuro diamo, con che tipo di clima assicuriamo”
Sempre più antidepressivi venduti, sempre più a giovani adulti e adolescenti. È questo il quadro che emerge da un’analisi Pharma Data Factory (pdf), eseguita grazie alla raccolta dei report di sell-out della banca dati più puntuale ed estesa del mercato, con il 95% di farmacie monitorate e una rilevazione dei consumi reali di farmaci e altri prodotti in italia. In aumento il mercato dei farmaci per la cura della depressione e per la stabilizzazione dell’umore: i volumi nell’ultimo anno mobile (novembre 2023-ottobre 2024) risultano pari a 49 milioni di confezioni vendute per un valore prezzo al pubblico di 525 milioni di euro. Si è registrata una crescita rispetto allo stesso periodo del 2023, in volumi del +3,2% (da 47 a 49 mln di confezioni) e a valori del +3,8% (da 506 a 525 milioni di euro). E sono soprattutto le fasce più giovani quelle dove si registrano aumenti delle vendite, pari a circa il 10% in un anno.
“Se parliamo di classi di età che utilizzano più antidepressivi, la fascia adulta 50-64 consuma oltre 11 milioni di confezioni in un anno, in aumento del 2,8%, seguita da anziani 75-84 anni (8,6 mln, +3,5%)”, spiega Giorgio Cenciarelli, Ceo di PDF. “L’aumento più rilevante però si registra nella fascia dei giovani 25-34 anni, con un +10,4% e 1,8 milioni di confezioni vendute. E anche fra i giovanissimi 15-24 anni si nota un aumento del 9,8% e 1 mln di confezioni”.
“Questi dati confermano quello che sappiamo da tempo e cioè che esistono dei disturbi depressivi e di ansia in aumento nelle nuove generazioni al punto che da tempo, e questo riguarda le nuove forme di sofferenza, abbiamo un abuso di questi farmaci nel senso che alcuni li consumano prendendoli dai genitori e quindi dentro una dinamica che non è contenuta in questa statistica”, dice ad HuffPost Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e Presidente della Fondazione Minotauro. “Il dolore generazionale ha una qualità e una modalità diversa che ha fatto sì che i ragazzi consumino diverse tipi di sostanza per tentare di ridurlo. Compresi i cannabinoidi, cioè hashish e marijuana, che da diverso tempo non hanno più valenza trasgressiva-oppositiva, ma sono piuttosto degli antinoia, degli antitristezza, dei lenitivi. Di sicuro esiste un ricorso da parte dei ragazzi all’automedicazione che tende a mettere a tacere questi vissuti, queste emozioni che risultano dirompenti”.
A preoccupare però è la leggerezza con cui questi antidepressivi sono prescritti anche a giovanissimi. Un tema, ci dice ancora Lancini, che è molto insidioso e molto dibattuto. Il motivo è tutt’altro che semplice perché dipende dai “modelli di presa in carico della sofferenza. Esiste una cultura che si è sviluppata negli anni, su tutto, in cui la cura è medica. E ci mancherebbe, ci salva la vita”. Nell’ambito del disagio giovanile, tuttavia, c’è un ampio dibattito: “La diagnosi in adolescenza, soprattutto in età evolutiva, dipende dai modelli di presa in carico oltre che dalla gravità e dai centri a cui ci si rivolge. Quindi è vero che esistono dei dispositivi dove l’intervento elettivo è guardare la sofferenza e il dolore non tanto come una malattia in adolescenza, ma come un’esperienza di sofferenza che rischia se non ascoltata, non presa in carico, non elaborata di diventare una psicopatologia. Ma esistono anche altri modelli che invece ritengono che i segnali di dolori e di disagio dei ragazzi sono una spia di una psicopatologia e quindi inutile negare e ritardare, meglio intervenire immediatamente in maniera farmacologica”, spiega Lancini. Nel mezzo un range ampio di visioni mediane.
In altre parole, la differenza la fa se si “ritiene che il tentativo di suicidio di un adolescente sia un disperato segnale di un disagio psichico, ma non l’esordio di una psicopatologia, non uno che ha perso il contatto con la realtà, per intenderci, ma uno che soffre al punto di morire, oppure lo si pensi come un depresso”, che ha bisogno di una cura farmacologica. Nessuno dei due approcci è da considerarsi sbagliato, dipende dai modelli di diagnosi. La farmacologizzazione del dolore, tuttavia, non è una questione da prendere sottogamba, è preoccupante e la domanda è lecita: siamo sicuri che non sia un eccesso? “Se la sostanza ti curi o ti faccia male è un tema dibattuto”, conclude Lancini. “E’ giusto domandarsi quanto si possa incidere sulla sofferenza in aumento di questi ragazzi in modo organico, come fa il farmaco, e quanto invece si possa fare anche attraverso il cambiamento del contesto in cui vivono, che non significa solo avere un approccio psicoterapico. La sofferenza ha molto a che fare con il contesto: con che tipo di genitori siamo, con che scuola proponiamo, con che futuro diamo, con che tipo di clima assicuriamo. Quella disperazione è presenta nei ragazzi e si vede nell’aumento del consumo di antidepressivi, come nell’attacco al corpo o nei gesti sempre più disperati. Il motore è sempre il dolore e la sofferenza: bisogna chiedersi se sono una malattia da curare o un segnale di un disagio e serve un cambiamento del contesto o una ripresa evolutiva”.