Condividiamo l’articolo di Maria Novella De Luca con l’intervista a Matteo Lancini per La Repubblica.
La scuola è l’ultimo baluardo della socialità dal vivo poi, per molti ragazzi, non resta che Tinder per incontrarsi”. Marco Ferrari, prof di Filosofia al liceo “Malpighi” di Bologna, tra i dieci migliori insegnanti d’Italia secondo il “Teacher italian prize”, dice che la solitudine degli adolescenti “è il tema del nostro tempo”. Una solitudine paradossale però. Perché attanaglia cuore e mente dentro la folla dei social, nella felicità illusoria dei video di Tik Tok, nello scorrere incessante di storie Instagram, nell’afasia di Whatsapp. Qualcosa sta accadendo, la bolla è scoppiata, la Generazione Zeta sta male. Depressione, disturbi mentali, autoisolamento, anoressia, bulimia, un’epidemia di malessere tra gli adolescenti.
E’ di questi giorni la notizia che le scuole pubbliche di Seattle hanno intentato una causa contro Meta (proprietaria di Facebook, Instagram, WhatsApp), Google (YouTube), TikTok (della società cinese ByteDance), Snap (che controlla SnapChat). Motivo? I social stanno avvelenando le menti delle nuove generazioni, sfruttando “i loro cervelli vulnerabili”. Nel documento di 91 pagine depositato in tribunale, si sottolinea che dal 2009 al 2019 c’è stato un aumento del 30% degli studenti delle scuole pubbliche della città che hanno rivelato di sentirsi “tristissimi o senza speranza quasi ogni giorno per due settimane o oltre di seguito”. E dopo la pandemia ogni cosa è precipitata.
La class action delle scuole di Seattle, alleate alle famiglie di cinquantamila studenti, è clamorosa. Afferma con una forza dirompente quello che psicologi, psichiatri, ma anche insegnanti dicono da tempo seppure con voce più flebile: siamo di fronte a una deriva che potrebbe travolgerci. Del resto nelle settimane scorse abbiano assistito in Italia a un rincorrersi, sui social, di pubbliche ammissioni di solitudine e di malessere. Aveva cominciato, in Puglia il giovane cantante diciottenne Potes. Centinaia di followers su tutti i social, poi un appello-verità su Tik Tok: “Non ho nessun amico con cui uscire. E sentire mia madre che dice: vengo io con te, mi fa sentire ancora più disperato”. La Rete aveva risposto, all’unisono: “Siamo tutti soli, uniamoci”. Poi erano scese in campo addirittura le mamme: “Aiuto, mia figlia è timida, cerco amici per lei”. Così Angela, mamma pugliese su Facebook. Altre madri seguono, rispondono, raccontano: “Anche mio figlio, anche la mia”.
Cosa sta accadendo? Se la generazione interconnessa ammette, per la prima volta, il proprio isolamento senza paura di apparire “sfigata”, confessa che oltre i like c’è poco altro, vuol dire che la bolla è scoppiata. Che la realtà virtuale è un’illusione e i social non sono la vita. Perché ad un certo punto capita di alzare la testa dal display del telefono, da Tik Tok e da Instagram e scoprire che intorno c’è il deserto e questo fa male, malissimo.
Racconta Marco Ferrari, prof che coniuga il senso dell’insegnare alla missione di essere educatori: “I ragazzi di oggi non sono diversi dai ragazzi di ieri, sono affamati di incontri e di vita vera, vogliono guardarsi negli occhi, esattamente come facevamo noi. Il senso di solitudine, poi, è connaturato all’essere umano. La differenza è che si sono rarefatti i luoghi di socializzazione, la piazza virtuale ha preso il posto della piazza fisica, nell’equivoco che le amicizie dei social possano sostituire le amicizie reali”. In questo senso la scuola, dove di fatto la socialità è garantita (e il Malpighi è stato uno dei primi licei ad attuare la politica no-cellulari) è un po’ l’ultima spiaggia dell’adolescenza dove stringere quelle amicizie “reali” che a volte, durano tutta la vita. “Usciti dalle superiori diventa tutto più difficile. Diversi miei ex alunni mi raccontano di non sapere più dove incontrare fisicamente amicizie e amori e allora si affidano alla Rete. Come se non ci fossero più luoghi, piazze, muretti. E’ il motivo per cui ho inventato le Romanae Disputationes, un vero festival della filosofia dove mille ragazzi si sfidano insieme sulle grandi questioni della vita”.
Davide ha 20 anni, studia alla Sapienza di Roma e confessa che per non sentirsi più solo ha dovuto spegnere il cellulare e mettere a tacere i social. “Quando avevo 16 anni il mio unico grande amico è andato a vivere in Australia con i suoi genitori, nella mia vita si è aperto un vuoto enorme. Sono timidissimo, era lui il mio ponte con il mondo. Ero nelle chat della classe, su Instagram, Tik Tok, ma oltre quello scambio virtuale, il pomeriggio, tornato a casa non vedevo né sentivo nessuno. I mei genitori lavorano tutto il giorno, sono figlio unico, quindi nella mia casa deserta non avevo altra compagnia che il Pc e il telefono”. “Un giorno – ricorda Davide – ero così disperato che sono uscito a piedi, e per caso mi sono affacciato al campetto dove giocavo a calcio da bambino ed ero bravissimo. Il mister mi ha visto, mi è venuto incontro e mi ha abbracciato. Anzi mi ha subito chiesto se fossi libero per aiutarlo ad allenare i piccoli. Sono stato felicissimo, da quel giorno ogni pomeriggio aiuto i mister, sono tornato a giocare e spesso la sera la mangio la pizza con tutto lo staff. Ho degli amici “reali” e mi sembra incredibile”.
Davide ce l’ha fatta. Con la forza della disperazione. Sentirsi soli nell’adolescenza è naturale, quello che non è naturale è sentirsi soli nella folla social, mentre (magari) mamma e papà scendono in campo sullo stesso terreno virtuale per cercare amici per i figli. Umano certo, ma quanto utile ai giovani per rompere il guscio? E’ il pensiero di Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta del gruppo “Minotauro” che ai giovani “sempre connessi” dedicò un libro assai innovativo già nel 2009, ne ha poi analizzato la deriva nel ritiro sociale con un altro titolo profetico: “La solitudine della generazione iperconnessa”. “Non è soltanto colpa della Rete se i ragazzi si sentono senza amici, il vero problema, frutto anche della pandemia, è che i genitori hanno messo sotto sequestro il corpo dei figli. So che è una provocazione, ma nella demonizzazione del mondo esterno, hanno comunicato ai loro figli che è meglio la sicurezza della casa, magari le amicizie virtuali e i genitori stessi come compagnia al posto di coetanei con cui si potrebbe trasgredire”.
Lancini è categorico. “Tutto questo non può funzionare, gli adolescenti devono reagire con le proprie gambe e i genitori accettare che si sbuccino le ginocchia. Certo, quando non c’erano i social, alla disperazione della solitudine si reagiva uscendo, cercando fisicamente gli amici. I social creano invece l’illusione di avere delle relazioni, ma il vuoto resta identico, anzi diventa più profondo”. Davide ce l’ha fatta proprio perché un giorno ha rotto il guscio. “O mi buttavo sotto un bus o provavo a reagire”, dice. E la vita, sotto forma di un pallone, ha risposto.
Valentina Petri insegna italiano all’istituto professionale “Lombardi” di Vercelli. Il suo blog e poi libro “Portami il diario” cronache scolastiche sul filo dell’ironia, è diventato un best seller. “Io credo che i ragazzi governino i social, non ne siano dominati. Hanno insegnato anche a me ad utilizzarli. Tra i miei studenti vedo nascere salde amicizie assolutamente reali, vedo la sofferenza quando l’amicizia viene tradita, uno dei grandi dolori della giovinezza. Poi certo c’è il mondo virtuale, una parte del loro tempo è lì, ma sanno come entrarne e come uscirne. Insomma, sembrerò ingenua, ma sono fiduciosa e non condivido questo senso di apocalisse: l’ansia di vita concreta di un adolescente è più forte di tutto”.