Riportiamo l’interessante intervista realizzata da Federico Cella a Matteo Lancini e pubblicata sul Corriere della Sera del 25/07/2016 a proposito del complesso legame tra l’utilizzo di videogiochi e i recenti fatti di cronaca.
Ali David Sonboly, l’autore-suicida della strage di Monaco al McDonald’s, e i videogiochi. Come Anders Breivik, quasi esattamente cinque ani prima a Utoya in Norvegia, cultore di World of Warcraft e utilizzatore di Call of Duty per “allenarsi” al massacro. Andando ancora più indietro, si arriva a Columbine, il suicidio di Eric Harris e Dylan Klebold che nel 1999 portarono con sé 12 compagni di scuola e un insegnante. Allora ci fu una denuncia formale, al tribunale di Denver, da parte di alcune famiglie vittime del massacro, contro “i videogiochi super-violenti che rendono i bambini dipendenti dalla violenza e li trasformano in killer senz’anima”, diceva nel 2001 John DeCamp, il legale che assisteva le famiglie contro i colossi del settore, dalla Warner a Sony Computer. Nella mancanza di studi che definiscono una correlazione tra certi comportamenti violenti – che sfociano in drammatici suicidi “spettacolari” o “allargati” – e i videogiochi, succede che diversi commentatori puntano il dito verso l’interazione in ambienti digitali dove l’uccisione è scopo del gioco, in articoli dove il videogioco diventa “palestra virtuale di violenza e assassinio” (Corriere della Sera) oppure “simulatore di scorribande, rapine e sparatorie in città” da cui prendere spunto (Il Messaggero). Gli articoli vanno poi oltre alle singole definizioni e dimostrano consapevolezza di un realtà ben più complessa di quella sintetizzata
dai titoli. Ma qual è questa realtà dove si coltivano, e a volte realizzano, trappole social destinate alla vendetta-evento contro i propri coetanei e destinate alla fine da prima pagina di chi le mette in scena? Ne abbiamo parlato con Matteo Lancini, 51 anni, psicologo e psicoterapeuta, presidente della fondazione Minotauro di Milano, autore del libro “Adolescenti navigati – Come sostenere la crescita dei nativi digitali” (Erickson, 2015).
Questi avvenimenti originano dal fatto che si decide di suicidarsi, non è un’azione di guerra: il giovane si trova di fronte a realtà di sviluppo che non riesce ad affrontare. E dove c’è una cultura grazie a Dio diversa dalla nostra in Italia, una cultura delle armi, questo può sfociare in “suicidi indimenticabili”, così come è successo a Columbine: si è deciso di morire e si vuole farlo nel modo in cui la nostra società massmediatica può permetterlo, cioè facendolo diventare un evento.
Dirette social, video in tempo reale. E quindi processi imitativi difficili da fermare.
Sono ragazzi che a un certo punto non intravedono un futuro. E la forte promozione dell’immagine crea situazioni a rischio: si pensa di poter dare un senso alla propria fine, una vendetta contro i soprusi subiti che non è però una guerra da cui si è deciso di uscire vincenti. La stampa non dovrebbe darne risalto, ma in casi come Monaco non può non parlarne. A questo punto non si può dare colpa ai media, così come non si può ridurre il tutto all’influenza dei videogiochi o della televisione. Tutti questi però possono diventare fattori precipitanti.
In che senso? Qual è il ruolo che i videogiochi possono avere?
È inutile negare che se qualcuno vuole allenarsi a una strage può farlo virtualmente. Anche Isis ha rivisto alcuni videogame in chiave di simulatori di attentati. Ma non possiamo dire che Isis fa attentati perché esistono i videogiochi. Il videogioco è uno spazio dove gli adolescenti sperimentano aree di sé, così come succedeva nelle strade e a i giardini sotto casa nelle generazioni precedenti. Ma ora il “fuori” è considerato pericoloso: una volta a 8-9 anni si tornava a scuola da soli, oggi non è più pensabile. C’è il traffico, ci sono gli stranieri, ci sono fattori considerati a rischio che portano i genitori a voler tenere i figli a casa, sotto controllo, e a chiudere gli spazi di socializzazione. È un cambiamento della società, una virtualizzazione dei rapporti, a cui abbiamo contribuito noi adulti: il telefonino viene regalato ai bambini alle Elementari per parlare con la famiglia.
Dunque non si fanno più i giochi di guerra in strada, e la sperimentazione fisica diventa virtuale. Magari attraverso i cosiddetti “videogiochi violenti”.
La parità di genere non deve portare a non fare differenze di genere, tra maschi e femmine esistono problematiche differenti, e i corpi che cambiano lo fanno per funzioni diverse. I maschi giocavano di più con cerbottane e pistole Oklahoma, e ora certi tipi di videogiochi sono più utilizzati dai maschi. Ed è vero che sono diventati una palestra, un ambiente dove confrontarsi con i propri coetanei, è una necessità evolutiva che prima trovava il proprio sfogo in strada.
Così aumentano i cosiddetti “ritirati sociali”, fenomeno degli hikikomori in Giappone ora in grande espansione in Italia.
Sono ragazzi che vanno in una sorta di auto-isolamento, volontario, si ritirano dalla scuola. E sono quelli che più utilizzano i videogiochi. Ora, non sappiamo se in assenza dei giochi elettronici, o meglio parliamo più in generale della Rete, questo fenomeno ci sarebbe stato e così in espansione. Il fenomeno è tra i più studiati del momento. Di certo possiamo dire che Internet non è la causa del ritiro ma invece è un ambiente che consente a questi ragazzi di mantenere processi di comunicazione, attraverso soprattutto i videogiochi multiplayer. Che non sono quindi strumenti di cattura ma che permettono di mantenere contatti con la realtà.
Non si può però immaginare che il Web e i giochi di massa online non abbiano contribuito alla fuga.
Andiamo con ordine. Le problematiche adolescenziali di oggi sono molto più sul proprio corpo che di natura edipica, cioè contro l’autorità paterna che non c’è più. E lo stesso ritiro sociale è sul proprio corpo, che viene segnato, anche dai disturbi alimentari. Che esistono solo in una società opulenta, dove domina la cultura dell’immagine, e Internet come tutto il resto ha contribuito a una società del narcisismo, anche se è una rete democratica ha contribuito alla competizione. La popolarità e il successo a scuola sono ricerche serrate che portano in alcuni soggetti al crollo dell’ideale infantile inoculato da un nuovo modello di famiglia. Che sostiene per esempio il successo dei figli fin da piccoli e lo misura nel numero di amici che si hanno.
In termini tecnici si dice “precocizzazione dell’infanzia” e “infantilizzazione dell’adolescenza”. E i social network sono una conseguenza, e così molti videogiochi: prodotti strutturati sulle nuove esigenze.
È una società che gli adulti stanno costruendo, un mondo dove siamo collegati 24 ore al giorno. E non l’hanno scelto loro, i nativi digitali. Bisogna dunque lavorare su una nuova educazione, che costruisce per gli adolescenti strumenti per poter gestire questa vita. Non nuove forme di controllo ma ripensare le città per riconsegnare il corpo dei ragazzi agli spazi esterni. E allo stesso tempo un’industria ricca come quella dei videogiochi deve contribuire, pensando ai propri prodotti anche con finalità educative, come momenti creativi e non solo di fruizione. È un modo per lavorare sulla prevenzione e non tramite censura o controllo.
Così torniamo da dove eravamo partiti: cosa fare con i “videogiochi violenti”?
È impossibile scrivere sulla confezione di un videogioco che fa male alla salute, non esistono ricerche che ci dicono questo. Per arrivare a scriverlo sui pacchetti di sigarette o sugli alcolici ci sono voluti anni di studi certi. Non è questa la strada. Bisogna creare consapevolezza spingendo sulle parti creative dell’adolescenza, non sul suo controllo.