Condividiamo l’intervista di Sabina Pignataro a Matteo Lancini per vita.it sul complicato periodo che stanno vivendo gli adolescenti.
La pandemia ha scoperchiato il profondo malessere già esistente. Gli adulti hanno finalmente aperto gli occhi. ammettendo che i loro figli stanno male. Per Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, «i ragazzi si stanno tatuando i nomi dei nonni morti. I segni delle mascherine svaniranno dalle nostre facce ma non dalla nostra psiche. Quello che possiamo fare tutti è imparare a gestire questo malessere». Ecco i suoi consigli ai genitori («aprite le case ai ragazzi più fragili») e ai prof («date spazio affinché le sofferenze possano esprimersi, esplodere»)
Da tutti i fronti si alza un grido drammatico: i nostri adolescenti stanno male. I suicidi e i casi di autolesionismo sono aumentati del 50%, come pure i ricoveri, dicono i dati della Neuropsichiatria della Fondazione Mondino IRCCS di Pavia. Crescono anche disturbi alimentari e dipendenze da computer e da cellulari. Gli studi condotti finora in Italia hanno dimostrato che l’isolamento ha favorito un peggioramento delle condizioni preesistenti nel 65% di bambini al di sotto dei 6 anni e nel 71% di quelli di età compresa tra i 6 e i 18 anni. Ne abbiamo parlato con Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell’associazione Minotauro di Milano, docente di psicologia all’Università degli Studi di Milano Bicocca.
Professor Lancini, sebbene sia ancora prematuro tracciare un quadro preciso delle reali conseguenze della pandemia sul benessere mentale degli adolescenti, cominciano ad essere disponibili dati poco rassicuranti. Lei è d’accordo con chi parla di un vero e proprio “allarme”?
Io direi che la pandemia ha scoperchiato il profondo malessere già esistente. Gli adulti hanno finalmente aperto gli occhi e imparato a tollerare che i loro figli stiano male, spostando però la responsabilità di questo malessere sulla pandemia anziché su se stessi. Detto questo, devo rilevare che la mancanza di un orizzonte, di una “data di scadenza” per il coronavirus, sta mettendo alla prova i ragazzi. Perché, se è vero che in fondo i ragazzi “hanno ancora tutta la vita davanti a loro”, è pure vero che sono stati costretti a rinunciare a esperienze inderogabili. Purtroppo, però, siccome non votano hanno poca voce in capitolo e scarso spazio nelle agende politiche: di loro ci preoccupiamo solo quando leggiamo questi dati allarmanti.
Gli stessi studi hanno anche sottolineato il ruolo della famiglia come risorsa indispensabile per limitare il malessere e lo stress generato dalla pandemia. Ma le famiglie talvolta fanno fatica…
Le ricerche dimostrano giustamente anche l’importanza fondamentale di una famiglia e di una scuola presenti e attive nel contrastare gli effetti negativi, affinché questo malessere rimanga entro limiti accettabili. Il problema è che gli adulti non si stanno interrogando sul proprio, di malessere, e sono dunque incapaci di rispondere alle domande dei figli, di guidarli a sviluppare una migliore capacità di resilienza senza dare loro false speranze.
La scuola, in particolare, come le sembra si stia comportando?
Stiamo tutti festeggiando la riapertura senza considerare come la scuola sta accogliendo questi ragazzi, che tornano in classe con le angosce tipiche della loro età – il corpo, le relazioni, la sessualità, le domande sul senso della vita… – dopo settimane, mesi talvolta. Ragazzi che hanno perso un familiare, i cui genitori magari non lavorano più, che hanno smarrito i punti di riferimento e le amicizie. Alcuni di loro si stanno tatuando i nomi dei nonni morti, perché i nonni sono le persone con cui sono cresciuti mentre i loro genitori lavoravano. Eppure, nonostante tutto ciò, non mi pare che nelle nostre scuole e nelle nostre case si stia creando lo spazio affinché queste sofferenze possano esprimersi, persino esplodere, se necessario. Spesso gli insegnanti si limitano a riempire le loro ore di verifiche, interrogazioni, prove, ritenendo – sbagliando – che gli ultimi quindici mesi siano stati per questi giovani l’equivalente di un anno sabbatico.
Cosa potrebbero fare invece gli insegnanti?
Innanzitutto potrebbero chiedere “Ehy, ragazzi, come state?”. Ma non tanto per chiedere, occorre saper accogliere le risposte che i ragazzi daranno, esercitando l’autorevolezza rigorosa del proprio ruolo, e non mettendosi ad un livello amicale. In secondo luogo, sono anni che ripeto che la scuola dovrebbe sviluppare competenze e non conoscenze, che bocciare non serve a nessuno e anzi ha l’unico effetto di aumentare la dispersione scolastica, che, stando all’indagine Ipsos per Save the Children, riguarda 34mila adolescenti. Guardi, io rivoluzionerei persino la maturità.
In che modo?
Darei un computer ad ogni ragazzo e gli chiederei di tenerlo acceso. Non avrei paura del copia e incolla. Al contrario, vorrei fosse premiata la capacità delle studentesse e degli studenti di usare le risorse a disposizione per sviluppare un lavoro creativo, ragionato, allargato, a partire dagli strumenti a disposizione. Vorrei si smettesse di chiedere loro di fare solo esercizio mnemonico.
Come è la scuola che ha in mente?
La Scuola che vorrei è una struttura aperta 24 ore su 24, che non chiude a causa di una pandemia, che sia interamente cablata: una comunità che si nutre delle risorse culturali, sociali ed economiche del territorio. Quando ero bambino io c’erano le stragi nelle piazze, le bombe alla stazione, eppure i bambini potevano giocare per strada: oggi, invece, non possono nemmeno incontrarsi in cortile. Allora, se non vogliamo che le nuove generazioni passino la vita su internet, la scuola deve diventare subito un luogo di aggregazione dove i ragazzi possano trovare un’occasione per sperimentare relazioni, riconoscere negli altri le proprie emozioni, scoprire se stessi.
“Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla”, ha detto Papa Francesco. Come usciremo da questa pandemia secondo lei?
Io direi che da questo malessere non si uscirà mai più: i segni delle mascherine svaniranno dalle nostre facce ma non dalla nostra psiche. Non subito, almeno. Non in una volta sola. Quello che possiamo fare tutti – professionisti, docenti, genitori – è imparare a gestire questo malessere, a mitigare il più possibile gli effetti negativi fin qui riscontrati e quelli che ad oggi sono solo ipotizzabili.
Nel concreto?
I genitori potrebbero iniziare ad interessarsi di più ai figli degli altri che ai propri, imparando ad accogliere chi è più fragile, chi è più in difficoltà, chi appare come diverso, secondo le categorie prepotentemente diffuse. Ad esempio, se in classe c’è un ragazzo che prende spesso una nota, è a lui che occorre pensare, anziché considerarlo come uno che rallenta gli altri. E poi le mamme e i papà, ma anche gli insegnanti, potrebbero interrompere la rimozione sociale che avvolge il tema della morte e affrontare l’argomento con i propri figli. In generale, credo che sia fondamentale che gli adulti trovino il coraggio per prendere in mano la complessità e la fragilità della vita. Quando avranno imparato a farlo, allora, potranno davvero capire i propri figli.
Fonte: vita.it