“Non basta obbligarli a spegnere il cellulare se non ascoltiamo il loro dolore”, Matteo Lancini su Avvenire

Condividiamo l’articolo di Luciano Moia scritto per Avvenire con l’intervista a Matteo Lancini (12 giugno 2025)

Abbiamo costruito una società dove i ragazzi sono disperati e ci chiedono aiuto, ma noi adulti fingiamo di non comprendere. Dove i ragazzi soffrono per mancanza di prospettive e noi adulti ci voltiamo dall’altra parte. Una società che tollera l’atrocità di 56 guerre, quelle che si combattono in questo momento sul nostro pianeta, dove in ogni momento del giorno e della notte, i notiziari mostrano immagini di morte, bambini straziati, donne dilaniate, giovani soldati ridotti a mucchi di membra indistinte, e noi diciamo ai nostri ragazzi che non devono prendere esempio dai videogames violenti, dai rapper che usano parole estreme, dai social che sono diseducativi. Una società in cui tutti siamo dipendenti da internet, dagli smartphone, dagli altri device elettronici, ma a scuola no, lì i ragazzi devono essere privati dai cellulari. Incoerenti? Certamente incompetenti. Forse anche in malafede.
Di tutto questo abbiamo parlato con un esperto che i ragazzi li conosce bene, per passione e per mestiere. Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, docente all’Università di Milano Bicocca, presidente della Fondazione Minotauro di Milano, autore di alcuni degli studi più originali sul disagio adolescenziale (l’ultimo Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti (Cortina) affronta proprio questi argomenti). Lo spunto quello è che successo in Austria – dove un ragazzo ha fatto irruzione nella sua ex scuola e ha ucciso 10 persone e ne ha ferite altre 28 – e in Francia, dove uno studente liceale di 15 anni è entrato a scuola e ha accoltellato, uccidendola, una bidella. Ma anche in Italia la violenza giovanile dilaga, con una lunga serie di episodi che è inutile elencare, visto le cronache rinnovano ogni giorno orrori e strazi.
Professore, ma cosa sta succedendo ai nostri ragazzi?
Credo che questi fenomeni così violenti abbiano collegamenti molto diretti con la disperazione. Direi che sono progetti di violenza disperata, tra un vuoto identitario e una assenza di prospettive future.
Perché poi questi progetti diventino una strage come in Austria, un gesto di violenza come in Francia, un suicidio oppure, una scelta di ritiro sociale, bisogna vederlo in base ai percorsi individuali. Quando il disagio non trova forme di simbolizzazione, quando la rabbia e la paura prendono il sopravvento sulla tristezza, il gesto diventa violento e disperato. Di fronte a queste situazioni non dobbiamo stupirci che prendano corpo anche progetti vendicativi molto violenti perché in questi casi, non dimentichiamolo, c’è anche la componente che nasce dal desiderio di apparire, nella convinzione fuorviante che il mio gesto estremo venga fissato per sempre, quasi reso eterno nella società massmediatica.

Gesti impossibili da prevedere o dietro questi fatti c’è sempre un disagio profondo che non siamo riusciti né a prevedere, né ad accompagnare?

Molto spesso il progetto vendicativo violento è annunciato da segnali premonitori, ma leggerli in tempo utile è difficilissimo. Non sapremo mai quanti, tra i ragazzi che avrebbero voluto compiere gesti simili, anche non così estremi, hanno trovato un adulto competente con cui parlare e questo è stato sufficiente per spegnere la violenza, per evitare la tragedia. Non credo che esista il raptus, si tratta sempre di gesti che hanno una lunga programmazione, anche se solo in parte consapevole. Magari tra qualche giorno gli inquirenti ci diranno di questo o quel segnale disseminato in Internet.

Quando succedono questi episodi siamo sempre pronti a puntare il dito contro presunti colpevoli

“esterni”, i social, i videogiochi violenti, i rapper cattivi maestri. Lei più volte ha espresso dubbi motivati contro questi facili capri espiatori. E allora dov’è il problema?

Il problema è che c’è un urgente bisogno di aiutare gli adulti ad alfabetizzarsi emotivamente. Oggi siamo noi adulti i primi a confondere realtà e virtuale. Ci sono 56 guerre nel mondo, ogni giorno vediamo in tv corpi di bambini, di donne, di uomini straziati. In Italia, se ti rubano una borsetta non esiti a travolgere il presunto colpevole con il suv. Insomma, il rispetto per la vita non è mai caduto così in basso e noi puntiamo il dito contro i videogiochi violenti contro le parole dei rapper? Ma quanti morti hanno provocato videogiochi e rapper? Zero. Quando ai miei tempi giocavamo a guardie e ladri, non c’era nessun esperto che puntasse il dito contro la tendenza di qualche bambino a voler sempre impersonare sempre il ladro. Forse perché sapevamo che i processi di simbolizzazione hanno un effetto positivo.

Un altro dei temi dibattuti in casi come questi è quello della dipendenza affettiva, quel legame patologico da cui sembra che i nostri ragazzi non sappiano prendere le distanze per diventare adulti. È proprio così?

Credo che sia il contrario. Più che dipendenza affettiva penso che ci sia un mancato riconoscimento dei bisogni di base. In altre parole, la disperazione non nasce perché un ragazzo ha avuto troppo – come sostiene anche qualche mio collega – ma perché gli adulti di riferimento hanno messo a tacere le sue emozioni, perché non è stato ascoltato, oppure lo è stato, ma a patto che esprimesse emozioni non disturbanti, cioè quello che noi adulti volevamo sentire.

Non sappiamo porre le domande giuste per intercettare il loro dolore. È davvero così?

C’è questo, certamente ma, ripeto, non sappiamo più ascoltare i nostri ragazzi. E cadiamo in contraddizioni assurde. Siamo tutti dipendenti da Internet ma pretendiamo che loro spengano il cellulare a scuola. Un professore che tiene davvero ai suoi studenti dovrebbe fare il contrario. Gli togliamo il cellulare ma poi dovremmo restituirlo per le attività didattiche. Sono provvedimenti slogan che non faremo mai applicare perché in realtà fanno comodo solo agli adulti. E i ragazzi lo sanno. Tanto che ggi sono sempre più numerosi quelli che se ne stanno andando da scuola perché stanno male. Fermiamoci a riflettere. Oggi in Italia non abbiamo ancora picchi di violenza così estremi come in Austria o in Francia. Ma domani?