Non è vero che abbiamo avuto “troppo” – intervista a Matteo Lancini

Condividiamo l’intervista a Matteo Lancini di Lucia Antista pubblicata da MARIE CLAIRE.

Non è vero che abbiamo avuto “troppo”

I giovani crescono “per delusione”, in un contesto dove crollano le grandi istituzioni e le certezze. Il disagio si manifesta in forme nuove, come il fenomeno degli hikikomori. Gli adolescenti di oggi sono figli di un modello che apparentemente li ascolta più che in passato, ma che non accetta le emozioni “scomode”: tristezza, rabbia e paura vengono rimosse. Non è vero che hanno “avuto troppo”; piuttosto, sono stati privati della possibilità di esprimere emozioni fondamentali. Dialogo con uno dei più autorevoli esperti di adolescenza e relazioni educative in Italia.

 

Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro di Milano, è uno dei più autorevoli esperti di adolescenza e relazioni educative in Italia. Dopo il successo di Cosa serve ai nostri ragazzi (Utet) uscito nel 2020, sta tornando in libreria con Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti (Cortina editore) con cui esplora i molteplici contesti e le modalità in cui gli adolescenti costruiscono relazioni.

 

Quali sono, secondo lei, le caratteristiche principali che distinguono gli adolescenti di oggi da quelli delle generazioni precedenti?

L’adolescenza ha attraversato tre diverse epoche. Nella prima, quella della “trasgressione”, i giovani crescevano in famiglie tradizionali basate sull’autorità paterna, dove dominava l’obbedienza e la repressione del desiderio. Era una società sessufobica, dove il motto era “prima il dovere e poi il piacere”. Nella seconda epoca, la trasgressione scompare. Emergono nuovi modelli educativi più affettivi, basati sul riconoscimento dell’intenzionalità del bambino. Cambia anche l’identità femminile: la maternità non è più l’unico orizzonte possibile. La famiglia si trasforma: da guardare con sospetto gli amici dei figli, i genitori passano a incoraggiare attivamente la socializzazione. La terza epoca, quella attuale, è caratterizzata dalla società narcisistica e dell’immagine. Non domina più la norma, ma un sistema di valori ideali molto elevati, in una società altamente performante. I giovani crescono “per delusione”, in un contesto dove crollano le grandi istituzioni e le certezze. Il disagio si manifesta in forme nuove, come il fenomeno degli hikikomori. Gli adolescenti di oggi sono figli di un modello che apparentemente li ascolta più che in passato, ma che non accetta le emozioni “scomode”: tristezza, rabbia e paura vengono rimosse. Non è vero che hanno “avuto troppo”; piuttosto, sono stati privati della possibilità di esprimere emozioni fondamentali. Questo, unito alla mancanza di prospettive future, genera nuove forme di sofferenza. Paradossalmente, questi ragazzi hanno sviluppato una forte competenza relazionale: quando incontrano un adulto capace di vera comprensione, si aprono completamente. Il problema non sono i social o gli smartphone, ma il fatto che hanno dovuto farsi carico della fragilità degli adulti.

 

Cosa si può fare?

Per capire cosa fare, dobbiamo prima avere una visione chiara della situazione. Il problema principale è che stiamo seguendo un approccio sbagliato. Stiamo confondendo le basi della ricerca scientifica, scambiando semplici correlazioni per cause dirette. Il primo passo fondamentale è contrastare una deriva pericolosa che sta prendendo piede: l’idea che il malessere delle nuove generazioni sia causato principalmente da Internet. Questa visione semplicistica ha determinato il successo di varie petizioni, interventi ministeriali e libri, ma non coglie la complessità del problema. Non ha più senso parlare di dipendenza da internet, poiché viviamo in una società dove la distinzione tra vita reale e virtuale è ormai sfumata. Dobbiamo smettere di incolpare la rete e i social media, e invece concentrarci su come aiutare i giovani a costruire una propria identità in questo contesto iper connesso.

 

Genitori e insegnanti spesso si sentono impreparati di fronte ai nuovi adolescenti…

Negli ultimi decenni sono avvenuti cambiamenti radicali tuttavia, continuiamo a discutere di programmi scolastici senza intercettare il funzionamento affettivo e relazionale degli studenti. Domina ancora lo stereotipo dell’adolescente che deve essere normato e controllato, come se fosse naturalmente trasgressivo. Ma anche comportamenti come il consumo di cannabis non sono più espressioni di trasgressività, quanto piuttosto tentativi di limitare il dolore. Le recenti riforme scolastiche, come la reintroduzione del 5 in condotta, sembrano basarsi su una visione antiquata: quella di un soggetto deve essere riportato nei limiti. Qualsiasi provvedimento basato su questa visione sarà inevitabilmente più orientato agli adulti che ai ragazzi, spesso guidato da logiche populiste o dalla necessità di gestire il vasto apparato del Ministero dell’Istruzione. Prendiamo l’esempio del latino: se volessimo davvero difenderlo, come fanno in altri paesi dove i latinisti sono diventati più preparati di quelli italiani, dovremmo proporlo come scelta volontaria. Gli adolescenti di oggi seguono l’adulto quando percepiscono passione e autenticità, non quando vengono costretti.

 

Lei parla spesso di prevenzione del disagio. Come si dovrebbero affrontare questi temi con i ragazzi?

Un bambino che oggi spinge un compagno a scuola non va festeggiato, certo va punito, ma non va trattato come un delinquente, perché altrimenti la rabbia viene solo contenuta. Tutti noi dovremmo poi chiedere ai nostri figli dai 12 anni in su se pensano al suicidio, perché i dati di ricerca ci dicono che è un pensiero molto presente nella mente delle nuove generazioni. Sa invece cosa fa l’adulto? Si è inventato che parlare di suicidio con figli o studenti sia una forma di istigazione. Mentre i dati ci dicono che i ragazzi si suicidano, e talvolta anche quando succede si dice che sono ‘caduti per sbaglio’.

 

Come descriverebbe la società in cui crescono i nostri ragazzi?

Ci sono due espressioni che dobbiamo contrastare oggi: la società pornografizzata, dove non c’è più confine tra esperienza intima, privata e pubblica – la creiamo noi riprendendo i nostri figli dalle recite dell’asilo fino al piatto di pasta e lo spritz che beviamo – e la società algofobica, che rimuove il dolore, dove ai funerali, invece di stare in silenzio a pensare al defunto, si applaude ricordando momenti di vita, rimuovendo così il dolore.

 

Qual è il ruolo della scuola in tutto questo?

Sulla scuola, basterebbe partire dalla relazione. La relazione implica questo: chi sei tu e cosa provi? Perché un figlio, uno studente, un adolescente non è uno che la pensa come te, sicuramente avrà delle emozioni che ti disturbano. E oggi il dolore delle nuove generazioni che esplode, che rimane muto e che diventa violenza, è legato all’ansia generalizzata – se ci va bene. Ma guardi che è potente, l’ansia generalizzata, perché ce l’hanno anche quelli che vanno benissimo a scuola, non è ansia da prestazione. Non deriva dall’aver avuto troppo, deriva dal non aver potuto esprimere delle emozioni oggi importanti, che sono le emozioni più primarie. E anche questa sorta di dipendenza – se lei sente oggi nei mass media, le relazioni sembrano una dipendenza tossica, la malattia del secolo – dimenticando che i bambini nascono esseri umani dipendenti. Stiamo rimuovendo delle emozioni che, se non aiutiamo i ragazzi a integrare e a parlarne, poi in adolescenza, come dice la letteratura, esplodono e diventano violenza, un attacco che si riversa su di sé o verso l’altro.

 

Quali nuove sfide potrebbero emergere e come possiamo prepararci per supportare al meglio le prossime generazioni?

La vera sfida è la relazione educativa. In 35 anni di lavoro con gli insegnanti, ho visto come i dirigenti scolastici più esperti lo sappiano bene: oggi, senza una vera relazione, non c’è apprendimento. I ragazzi intelligenti spesso si deprimono a scuola, non per malattia, ma perché l’ambiente scolastico non intercetta i loro bisogni relazionali. È paradossale che in una società dove la tecnologia è onnipresente – dove fin da piccoli i bambini utilizzano internet quotidianamente e all’università è impossibile studiare senza – ancora oggi agli esami di maturità chiediamo ai diciottenni di consegnare i telefoni e chiedere il permesso per andare in bagno, come se fossero bambini dell’asilo. Questo mentre i leader mondiali governano attraverso i social media, come abbiamo visto durante la pandemia con le comunicazioni su Facebook, o come vediamo con le dinamiche politiche attuali che si svolgono anche attraverso i canali social. La sfida non è tornare al passato, ma ripensare la relazione educativa in un mondo profondamente cambiato.