Condividiamo l’articolo di Rita Balestriero per la newsletter Genitori equilibristi del Gruppo Gedi con l’intervista a Loredana Cirillo sul significato della paura e sulla difficoltà a entrarvi in contatto.
Alessandro correva con la sua amica. Facevano il giro del ristorante, una vecchia fabbrica di cristalli a Milano nord, tutti i tavoli allestiti fuori come una sagra di paese. C’era la musica e io ero la prima che li aveva esortati a fare un’esplorazione, a correre, a giocare, d’altronde quel posto lo avevamo scelto “così i bambini si divertono”. Poi però non li vedevo da un po’, mi sono alzata, ho sentito il bisogno di fare un controllo. Ho fatto mezzo giro e non li ho trovati, l’ho completato e niente. Apnea. Alla fine erano tornati al tavolo, volevano il gelato.
Era da un po’ che non la provavo quella paura soffocante e, anche se è durata pochissimo e non ho neppure avuto il tempo di agitarmi, mi ha un po’ stordita. In quei pochi secondi ho ripensato a una mamma che una mattina in spiaggia avevo visto urlare disperata perché non trovava il suo bambino, e poi alla storia di Alfredino, che di recente avevo ascoltato nell’intenso podcast che Repubblica dedica al dramma di Vermicino. Non voglio neanche provare a immaginare cosa abbiano passato i suoi genitori, né che cosa hanno pensato questa settimana, in quelle ore di attesa eterna, quelli di Nicola, la cui storia per fortuna ha avuto un finale diverso.
Ma a che cosa serve la paura?
L’ho chiesto alla psicoterapeuta del Minotauro Loredana Cirillo, che chiamo nei momenti di spaesamento, quando per esempio decido all’ultimo secondo di cambiare argomento della newsletter, come oggi.
“Ci sono tipologie di paure diverse. Quelle adattive, per esempio, che ci aiutano a salvaguardare la specie. Anche se poi, di contro, è adattivo anche il desiderio di volerle sfidare, perché ci fa evolvere. E poi ci sono le fobie: chessò, di volare, dei ragni…che di solito hanno dei significati simbolici, ma possono dirci qualcosa di sconosciuto e profondo”.
E tu di che cosa hai paura?
“Di ammalarmi”, mi ha risposto un’amica. “Perché se crollo io, crolla tutto”. “Che gli succeda qualcosa di brutto”, mi hanno detto tante altre. Oppure di “vederli soffrire”, certo. Ma persino che i nostri figli facciano soffrire noi, anche in senso fisico, come mi ha raccontato l’autrice del libro Figli Violenti (Franco Angeli), in un articolo in cui alcuni lettori si sono riconosciuti, altri invece li ha fatti stupire parecchio.
Ultimamente io ho sperimentato anche una paura che non mi apparteneva: quella del cambiamento. Mi sono scoperta più fragile, meno reattiva di un tempo. Ti è mai capitato?
“La più classica delle paure genitoriali è legata alla crescita e tutta la sua ambivalenza è racchiusa nella scena del ristorante che mi hai raccontato: da un lato sosteniamo la loro autonomia, ma dall’altra, appena i nostri figli fanno il passo più lungo, ci spaventiamo perché in fondo abbiamo paura che possano fare a meno di noi”. Sbang.
Ma come si fa ad affrontarle le nostre paure?
“Accogliendole, lasciandole parlare: hanno tanto da dirci e da insegnare. Starci dentro ci aiuta a crescere”.
Loredana ci pensa un po’, e poi aggiunge. “Il nemico più grande è la paura di avere paura, perché in questo modo neghiamo il fatto che quello che stiamo provando possa avere un senso. D’altronde viviamo in una società in cui tendiamo a rincorrere la sfida, in cui ci esortano a uscire dalla comfort zone. Così finisce che quando non ci riusciamo, ci scoraggiamo. Mentre spesso sarebbe bastato prendersi del tempo e riflettere per affrontarla nel modo giusto, quella sfida”.
Ho fatto bene a chiamarla, Loredana, che dici?