Condividiamo l’intervista di Nina Verdelli ad Alfio Maggiolini per Vanity Fair.
«Erano le due del pomeriggio quando mi hanno minacciato con un coltello: ero fermo da solo all’angolo della scuola», racconta Leonardo, 16 anni, ex studente del liceo Severi di Milano, ora iscritto all’istituto paritario Leopardi. «A un certo punto sbuca un ragazzino, avrà avuto 13 anni. Mi dice che ha lasciato il telefono a casa. Gli porgo il mio, anche se dentro di me sapevo. Ne spuntano altri due, più grandi, volto coperto dal passamontagna. “Dacci il portafoglio”. Rispondo che non ce l’ho. Si voltano e se ne vanno con il mio iPhone. Commetto un errore: chiedo di poter avere indietro almeno la Sim. Tirano fuori il coltello, mi intimano di andarmene. Lì ho avuto paura. Ho dovuto assecondare il loro gioco».
A dover assecondare il gioco di chi, a Milano, gioca con il fuoco sono sempre più adolescenti, soprattutto maschi, soprattutto liceali del centro che, quotidianamente, si vedono aggrediti, scippati, picchiati da coetanei. Nel 2022, il capoluogo lombardo si è classificato primo per numero di reati complessivi denunciati, circa 6 mila ogni 100 mila abitanti, più di Roma e Napoli. In un contesto di generale diminuzione dei delitti gravi come omicidi o atti terroristici, nella Milano del post pandemia ad aumentare vertiginosamente (del 18 e del 24 per cento) sono scippi e rapine, compiuti soprattutto da minori che agiscono in gruppo. La dinamica è quasi sempre la stessa: ti accerchiano con una scusa, ti battono la mano sul petto in segno di saluto, «Bella amico, tutto a posto?», intanto controllano se porti la collanina. Subito dopo il furto, l’ostentazione del coltello come deterrente a una reazione e, nei casi più sfortunati, calci e pugni per ribadire un concetto semplice: voi dovete avere paura di noi. Messaggio ricevuto: i milanesi del centro hanno paura. «Io ho almeno sei amici che sono stati aggrediti», continua Leonardo, riportando una statistica confermata da ogni adolescente interpellato. «Se non sei come loro, diventi una preda facile».
Ma chi sono «loro»? «Sono giovani dai 15 ai 22 anni, di provenienza geografica diversa, per la metà italiani, per la quasi totalità maschi, che si riuniscono in baby gang senza gerarchie e commettono reati, solitamente di tipo predatorio», spiega Ciro Cascone, fino a pochi giorni fa Procuratore Capo del Tribunale dei Minori a Milano. Poi aggiunge: «Tre cose accomunano questi gruppi. Primo, il territorio: spesso si identificano con il Cap del quartiere di appartenenza. Secondo, il disagio economico e il desiderio di pareggiare i conti con chi è nato più fortunato. Terzo, il non pensiero: rubano per il gusto di farlo, aggrediscono per uno sguardo sgradito. A scuola vanno poco o non vanno affatto, la famiglia, quando va bene, sopperisce ai loro bisogni primari. Per la società, sono ragazzi invisibili».
Su consiglio dei genitori, poi, Alessandro ha denunciato ma, come la maggior parte delle vittime, sui suoi profili social non ha raccontato nulla. «Se sei stato rapinato ti vergogni», spiega Edoardo, 17 anni, studente al liceo Moreschi in zona San Vittore, che ha da poco scampato un tentato scippo solo perché ha corso più veloce degli scippatori. «I maranza, invece, sui social si vantano: ostentano la refurtiva, la volta che sono entrati a San Siro senza pagare, l’hashish che si fumano, le minacce che ti mandano, “La prossima volta ti uccido”. Non solo: tante bravate finiscono nelle loro canzoni. In Gli occhi del blocco, il trapper Baby Gang, che ora è in comunità per rapina a mano armata, dice: io pensavo alla collanina / Se portarla a un compra oro [per riempire il frigo] o metterla e fare il figo».
«La dinamica del bullo è sempre triangolare: c’è l’aggressore, l’aggredito e lo spettatore», commenta Alfio Maggiolini psicoterapeuta della cooperativa Minotauro di Milano e autore del libro Pieni di rabbia (FrancoAngeli, 2023). «Oggi, grazie a Internet, gli spettatori sono potenzialmente infiniti. Testimoni silenziosi di un disagio che, dalla pandemia in poi, continua a crescere e che, a volte, si manifesta con il ritiro sociale, altre volte, invece, esplode in comportamenti violenti».
Vale per i ragazzi di periferia, ma anche per quelli del centro che, annichiliti in un ruolo di vittime di cui si vergognano, da carnefici hanno cominciato a travestirsi. Padre Fausto, don della centralissima Parrocchia Corpus Domini all’Arco della Pace a Milano, conferma: «Tra gli adolescenti che frequentano l’oratorio, ho notato un’escalation di aggressività. In particolare sto seguendo un ragazzo di buona famiglia che si affianca a compagnie poco commendevoli, con cui compie atti riprovevoli: estorsioni a coetanei, furto di macchine del servizio di car sharing… Quando abbiamo affrontato l’argomento, lui si è trincerato dietro a un “so io che cosa voglio fare”, come se l’illegalità non costituisse una barriera al desiderio».
Lo sfumare del confine tra lecito e illecito è stato anche alla base della lettera che Silvia Stretti, vice preside del liceo Volta, ha scritto ai suoi studenti in seguito ai pestaggi che due di loro hanno subito alla festa nei giardini di fronte alla scuola, il 9 giugno scorso: «Nessuna violenza è giustificabile e auspichiamo che i responsabili vengano individuati. Allo stesso tempo, però, ritengo doveroso farvi notare che organizzare una festa non autorizzata, pubblicizzare la vendita di alcolici a minorenni, trarne illecito profitto e promuovere assembramenti e schiamazzi poco rispettosi non è un diritto».
Come non è un diritto girare armati, neanche per difesa. Cosa che, invece, in tanti ragazzi della cosiddetta «Milano bene» hanno cominciato a fare. Donatella, la mamma di Leonardo, il 16enne aggredito fuori da scuola, è rimasta basita quando il figlio le ha confessato che diversi suoi amici girano con il coltello in tasca. Edoardo, invece, ai suoi ha detto poco: «A volte, io il coltello lo porto. I miei amici pure. Alcuni hanno comprato il Baby Tonfa, un mini manganello che, se agganciato al mazzo di chiavi, le trasforma in un’arma. Senza, ti senti nudo. E pure preso in giro: esci per divertirti e rientri che le hai prese. Persino il torneo di calcio tra i licei, il Milano Football Cup, è diventato un pretesto per fare rissa: i tifosi vanno con spranghe e bastoni. Poi lo so che, se pure noi cominciamo a usare le armi, la violenza aumenta, ma l’unico modo per fermare questa gente è mettergli paura».
All’obiezione che le scorribande si fermano denunciando, Edoardo risponde: «La legge non è abbastanza dura con chi ruba. Se li prendono, il giorno dopo lo rifanno». I recidivi effettivamente ci sono, lo conferma il procuratore Cascone: «Sono circa un terzo e finiscono in carcere. Un altro terzo va in comunità. I restanti ai domiciliari, anche per scarsità di posti e di personale nei luoghi di detenzione». Questo, probabilmente, alimenta il senso di sfiducia dei giovani nei confronti delle istituzioni che, unito alla paura di ritorsioni («Sanno dove abito», dicono), porta molti di loro a non rivolgersi alle forze dell’ordine: Cascone stima che, per ogni aggressione denunciata, ce ne siano almeno tre sommerse.
Un’idea del come la fornisce il procuratore Cascone: «Serve una mappatura della dispersione scolastica nelle zone del malessere. La povertà educativa incide sui tassi di devianza giovanile. Bisogna aiutare questi ragazzi a costruirsi un progetto di vita. Certo, le politiche sociali sono investimenti onerosi e a lungo termine. Se cominciamo adesso, vedremo i primi risultati tra una decina di anni».
A oggi, il Comune di Milano ha avviato alcuni progetti. Li racconta l’assessore alle Politiche Sociali Lamberto Bertolè: «C’è QuBì, un programma per contrastare la povertà infantile che, grazie al terzo settore, realizza interventi in 25 quartieri: da servizi di doposcuola alla riqualificazione di computer per le famiglie più bisognose. Inoltre, abbiamo lanciato AccogliMi, un sistema di orientamento psicologico per adolescenti. Grazie a un numero verde e a una chat, i ragazzi in difficoltà possono rivolgersi a un gruppo di operatori con competenze diversificate». Alcuni quartieri, poi, hanno sentito il bisogno di un intervento specifico sul tema dell’aggressività: il Municipio 3, per esempio, nel 2019 ha fondato un Tavolo per la nonviolenza che, ogni 12 mesi, organizza la Human Week (quest’anno si terrà tra il 2 e il 9 ottobre), una settimana di eventi dedicati a educare i cittadini alla filosofia di Gandhi. «Vogliamo promuovere uno stile di vita pacifico e tollerante, nel modo di rapportarsi con i figli, nelle relazioni sul luogo di lavoro, nelle interazioni tra pari», spiega Camilla Polo, vice presidente del Tavolo.
Curiosa coincidenza, «coraggio» è una parola cara a Meloni, che nel suo libro, Io sono Giorgia (Rizzoli, 2021), scrive: «L’educazione al coraggio è qualcosa di cui i giovani, oggi, sono decisamente privati. Per come la vedo io, dovrebbe essere materia scolastica». L’augurio è che, a Milano, un certo tipo di coraggio non diventi anche materia di vita.