Seleziona una pagina

Condividiamo l’intervista di Alfio Sciacca a Gustavo Pietropolli Charmet per Corriere.it

Si tiene alla larga dagli «aspetti sociologici» di molte analisi e preferisce restare concentrato sull’individuo. Sul carnefice, sul «mostro», che potrebbe nascondersi in ognuna delle nostre case. Un’analisi che ha quasi una dimensione onirica in cui poteva anche esserci un finale diverso, se Filippo avesse trovato sulla sua strada «qualcuno in grado di trasformare la sua rabbia e la voglia di vendetta “solo” in parole di morte». Magari lo psicologo con il quale aveva già appuntamento. «Sperando fosse anche uno bravo», puntualizza.

Professore Gustavo Pietropolli Charmet, chi è Filippo?
«Uno stalker che uccide chi l’ha abbandonato. In questi soggetti, nella relazione, più che l’amore e la sessualità, prevale qualcosa di misterioso che tende a guarirlo da un dolore inespresso, in nodo magico e portentoso. Ciò regala alla relazione un carattere irrinunciabile: una questione di vita o di morte».

Una «magia» che può portare ad uccidere?
«In una prima fase ci si accanisce in pedinamenti e agguati per riportare lei alla ragione. Se poi l’abbandono si concretizza, viene fuori non solo rabbia o malinconia, ma la disperazione di chi si sente definitivamente perduto. E, ai suoi occhi, la responsabile di ciò è la persona che aveva fatto il sortilegio e poi l’ha rotto. Scatta così un mix atroce di rabbia e voglia di punizione».

In un audio con le amiche Giulia racconta di come non riuscisse a liberarsi di lui. Era un campanello d’allarme?
«È la conferma che lei era alle prese con uno stalker che l’assediava. Tipico di questi soggetti è proprio far sentire tutto il peso dell’assenza, arrivando persino alla minaccia del suicidio, tranne poi non trovare il coraggio di suicidarsi anche dopo averla uccisa». .

Ci sono dei segnali premonitori da non sottovalutare?
«Non sempre. Per Filippo, però, non era normale che a 22 anni andasse a letto con un orsacchiotto per compensare la perdita del calore della persona desiderata. Ciò fa capire quanto gli mancasse la “magia” della relazione amorosa: solo l’orsacchiotto gli consentiva di prendere sonno».

I genitori avevano già appuntamento con uno psicologo. Avevano colto qualcosa?
«Probabile. E non solo per l’orsacchiotto. Ci saranno state altre manifestazioni di sofferenza eccedente il normale lutto amoroso. Magari il non pensare ad altro che assediare Giulia o di controllarla al telefono e sui social».

È facile dire a un figlio: «Forse è il caso di consultare uno psicologo»?
«No. È difficilissimo. Soprattutto per i padri».

E i ragazzi, fanno fatica ad accettare di essere aiutati?
«No. Tranne quando si affronta il tema in modo violento. Della serie: “Adesso ti porto dallo psicologo”. Allora il ragazzo lo legge: “Adesso vai in carcere”. In genere invece i giovani accettano di andare da chi può affrontare il loro tormento. Solo una tipologia di soggetti, che va verso l’antisocialità e ha tratti delinquenziali, rifiuta di aprirsi».

Se Filippo avesse potuto raccontare quello che covava dentro si poteva evitare questo tragico epilogo?
«Penso di sì. E comunque vale sempre la pena di tentare. Sia chiaro: nessun può prevedere quello che accadrà. Ma se si riesce a far venire fuori fantasie e rabbia, trasformandole in parole e in narrazione, può servire a impedire che diventino invece azioni».

Casi del genere, anche senza arrivare ad uccidere, sono in crescita?
«Sì. Soprattutto i giovani maschi prendono molto male la delusione amorosa. Nei ragazzi è cambiato il modo di gestire la fine della relazione. Se in passato suscitava sentimenti che portavano alla depressione, ora invece prevale la reazione violenta».

Questa tragedia ha messo in allarme molte famiglie. Che consigli darebbe?
«Premetto che non mi preoccupa affatto che i genitori si mettano in allarme. Oggi nei ragazzi c’è tanto disagio, sofferenza, solitudine. Non è male che cresca l’attenzione su queste cose, rispetto alle tante banalità che caratterizzano il rapporto con i figli. Spesso i ragazzi sono troppo ascoltati, coccolati, curati, sorvegliati. Ma questo non vuole dire che siano conosciuti e capiti».