Condividiamo l’intervista di Letizia Magnani a Matteo Lancini per Grazia.
Resterà nei cuori il piccolo Manuel Proietti, 5 anni, nell’incidente di Casal Palocco (Roma), nello scontro tra l’auto della sua mamma e il Suv guidato dallo youtuber Matteo Di Pietro del gruppo The- Borderline, ora agli arresti domiciliari. E si discute dei due sedicenni che a Pomigliano d’Arco (Napoli) hanno ucciso senza motivo, a calci e pugni, Frederick Akwasi Adofo, un uomo senza fissa dimora. C’è poi la violenza a scuola. Lascia disorientati la promozione con il nove in condotta dei due studenti che, in classe, avevano colpito la docente di Scienze con una pistola a pallini, mentre ad Abbiategrasso un allievo ha ferito in classe una professoressa con un coltello. Questi e altri episodi hanno messo sotto esame tutta la generazione cresciuta online, tra sfide, ricerca di attenzione e un continuo confronto con i successi altrui. «È quel che accade in una società dove tutto è sotto la lente dei social e dove è saltato il confine fra ciò che è pubblico e ciò che è privato», dice lo psicoterapeuta Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro di Milano e autore di Sii te stesso a modo mio (Raffaello Cortina), che da anni si occupa degli adolescenti.
Che cosa sta succedendo alle nuove generazioni?
«C’è una difficoltà nella comunicazione degli stati affettivi da parte dei ragazzi, del dolore che provano. È una vera emergenza. Diamo sempre la colpa a qualcosa di esterno, i social, le conseguenze della pandemia. Ma lockdown e social hanno solo fatto emergere il grande problema: la fragilità di adulti e ragazzi».
La violenza è sempre più diffusa. Come è possibile?
«Noi vediamo solo questi fenomeni, che ci colpiscono molto, ma ignoriamo il resto. C’è un attacco al proprio corpo, come i disturbi alimentari, o il ritiro sociale, il suicidio sociale, cioè il rinchiudersi in una stanza in un’età nella quale, invece, sarebbe normale aprirsi al mondo. Tutto oggi è accompagnato da evidenti segnali di autolesionismo. I ragazzi si tagliano, si bruciano, si provocano dolore fisico».
Questo perché gli adulti hanno smesso di fare gli adulti?
«Mai come ora i ragazzi sono ascoltati. Io lo ero molto meno dai miei genitori e loro, a loro volta, non lo erano quasi per nulla dai genitori: credo che il padre di mio nonno non sapesse nemmeno quanti figli avesse. Esagero per dire che, in realtà, viviamo in una società complessa e dissociata».
Che cosa significa?
«Oggi l’imperativo è: i bambini devono essere loro stessi, purché vadano bene a mamma, papà e insegnanti. Ma è sbagliato. Ci sono tanti disagi nuovi, con una rosa di sintomi. La risposta? Gli adulti non solo devono fare gli adulti, ma lo devono fare ai tempi di oggi».
Che cosa non va nella generazione cresciuta online?
«Abbiamo creato una società nella quale chi la fa più grossa ottiene più “like”, ha maggiore successo e popolarità. Non c’è più il senso del limite. Siamo di fronte a una pornografizzazione dell’esperienza: tutto va mostrato, sempre. Non c’è più la differenza fra pubblico e privato, l’intimo non esiste più, perché è sempre sotto i riflettori. Riprendiamo con fotocamere i nostri bambini senza sosta. Li esponiamo in continuazione, già da quando sono nella pancia della mamma. Non c’è più niente d’intimo, di segreto, di personale».
Insomma, un mondo di “like”, poi però c’è la vita vera? «E invece nella società attuale la vita ha senso solo se qualcuno ti guarda e ti ammira. I ragazzi coinvolti nell’incidente di Casal Palocco venivano pagati per fare quei video, erano incensati, ricercati dagli sponsor. Per cui andavano sempre oltre, per essere ancora più ammirati. Ma succede lo stesso in tv da moltissimi anni. Il giorno dopo le trasmissioni, si parla di quello che ha tirato una sedia in testa a un altro, non di quello che ha provato a dialogare».
E il ragazzo che ha ferito con un coltello la sua insegnante? Un tempo si andava in classe e si faceva gli studenti: c’era una sola dimensione. Oggi invece si porta tutto il proprio essere, disagio compreso. E allora ci sono ragazzi più violenti, altri che a scuola esprimono il disagio, altri che provano a suicidarsi. Va bene introdurre lo psicologo d’istituto (lo ha annunciato il ministro dell’Istruzione e del Merito, ndr), a patto che siano gli adulti i primi a lavorare con lui. I giovani hanno disagi che a scuola esplodono».
Che cosa dire dei sedicenni che hanno ucciso un clochard?
«Chi attacca gli altri violentemente vede in ciò che attacca la parte di sé che non vuole accettare. La fragilità fa paura e non c’è forse niente di più fragile di una persona che vive per strada. In alcune sottoculture giovanili la fragilità è emarginata e presa di mira. È quello che è accaduto».
Esiste un problema con i genitori?
«Ovviamente sì. In questa società si chiede ai bambini di essere se stessi, ma al tempo stesso devono “andar bene” a mamma e papà. I quali, però, smettono di vedere l’altro, di capire chi sono davvero i loro ragazzi. Io ho due figli, mi è capitato recentemente alla recita di fine anno: ho visto tutti, genitori, nonni, zii, che riprendevano i propri figli che stavano facendo il loro dovere. Poi per forza questi bambini e adolescenti vivono in uno stato di ansia perenne».
Che colpa ha internet?
«Oggi la più grande spacciatrice di internet è la mamma- ma, perché così il bambino sta buono e fermo. Io toglierei internet e i social agli adulti. Non ai giovani: a loro darei internet anche a scuola. E invece, al contrario, facciamo fare loro gli esami scritti, come 100 anni fa. I più “dissociati” sono proprio gli adulti, che dicono ai ragazzi di non stare sui cellulari, ma sono i primi a non fare altro dalla mattina alla sera e la cosa più esotica che sperimentano è uscire sul pianerottolo, in pantofole, a prendere il cibo consegnato dal delivery».