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Condividiamo l’intervista di Monica Serra a Matteo Lancini per La Stampa.

«Dobbiamo smetterla di scaricare tutte le colpe sulla famiglia o su internet. La colpa è della società che noi adulti abbiamo costruito, dove tutto è spettacolarizzazione, dove la sfera intima non esiste più, e del modo in cui noi utilizziamo il web e i social . Dobbiamo essere noi i primi a spegnere i cellulari: genitori, insegnanti, politici».

Lo psicoterapeuta Matteo Lancini, presidente dell’associazione Minotauro e autore del libro «Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta», davanti ai recenti casi di baby gang e violenza tra i più giovani – il ragazzino picchiato in Irpinia e costretto al baciamano, il dodicenne circondato dal branco e obbligato a inginocchiarsi a Vieste, per citare gli ultimi – tutti rigorosamente filmati coi cellulari, spiega che «abbiamo creato una società individualista ma di massa, con una pornografizzazione di tutto, nella quale il problema di internet è come lo utilizzano gli adulti: come gestiscono la famiglia attraverso i gruppi di Whatsapp, come lo usa la politica ogni giorno, governando il proprio processo di potere attraverso i social network».

Professore, il disagio giovanile è in aumento?

«Esiste sicuramente l’espressione di un disagio giovanile con un aumento di gesti violenti verso se stessi (autolesionismo, tentativi di suicidio che fanno meno rumore) e verso l’altro. È il bullismo di strada: spesso non sono neanche baby gang, ma gruppi che si formano all’occorrenza».

Chi sono gli autori di queste forme di violenza?

«L’età si è abbassata alla predolescenza e sempre più spesso questi ragazzi non appartengono a fasce socio-economiche marginali, ma a famiglie benestanti».

Perché lo fanno?

«I giovani che sperimentano disagio o sofferenza, la sensazione di non essere visibili di non avere futuro trovano qualsiasi occasione, in base alle caratteristiche di personalità, per compiere delle azioni che possano essere rese pubbliche. Per sentirsi qualcuno, per esistere».

Ci spieghi meglio.

«Abbiamo costruito una società in cui non c’è più un confine tra un’esperienza intima e privata e una pubblica, dove il sensazionalismo legato al fatto di rendere pubblico, attraverso gli smartphone, un avvenimento che ti consenta di avere popolarità e di far parlare di te è un atteggiamento che riguarda tutta la collettività».

Quindi è colpa dei social?

«La colpa semmai è di come la cultura adulta li governa. E in questo senso il grande protagonista di tutti questi fatti di cronaca diventano i social, che sono il vero interlocutore. Presenti nello stupro di Palermo, nei casi più recenti: c’è sempre una telecamera accesa».

Siamo tutti responsabili?

«Si, noi psicologi, la stampa, la politica… Abbiamo creato una società in cui qualsiasi avvenimento che ti consenta di avere un follower o un like in più va pubblicato. C’è un’emergenza valoriale profonda che riguarda l’incapacità degli adulti di usare i social e di imputare agli adolescenti la colpa di tutto questo».

Vuole dire che i ragazzi aggrediscono e filmano tutto per sentirsi qualcuno?

«Nessuno di noi rinuncia al proprio successo, alla popolarità, tutto viene spettacolarizzato. Così, per ottenere la popolarità, quando sei in difficoltà e sei un adolescente non c’è modo migliore che trovare qualcuno da sottomettere, riprenderlo e diventi finalmente qualcuno, che recupera la sensazione di non essere visto, di non avere futuro».

Qual è la soluzione a tutto questo?

«I primi a spegnere i cellulari e a tornare a parlare coi ragazzi, a rimetterli al centro, dobbiamo essere noi: politici, insegnanti, genitori. Se andiamo avanti così, avremo sempre di più ragazzi che compiranno azioni “straordinarie”, in base al loro disagio personale, riprendendosi. La dimensione dell’uomo, del rispetto dell’intimità del privato non esiste più. E questo non è stato creato dai ragazzi, ma dalla società adulta, dove o sei visibile o non conti nulla, o hai successo o è meglio che tu scompaia».

Come si fa a spegnere i cellulari nel 2024?

«Allora dobbiamo dare l’esempio. Smetterla di filmare i ragazzi da quando sono bambini e di puntare tutto sull’immagine. Rendere obbligatorio l’uso di internet almeno nelle scuole secondarie di secondo grado per educare i ragazzi a usare questo strumento. Soprattutto, rimetterli al centro, nelle politiche del governo e nelle case. Parlare con loro, anche degli argomenti più difficili: la morte, la fragilità, la sofferenza».