Con frequenza crescente arrivano a colloquio con lo psicologo giovani che, lasciata da non molto la scuola superiore, sono in crisi negli studi universitari. Una crisi descritta per lo più come una sorta di inspiegabile pigrizia di fronte alla pagina del libro, ogni giorno più forte, che loro stessi stentano a spiegare o a legare a specifiche motivazioni.Naturalmente non si può generalizzare: ogni storia è diversa per entità, per durata e per motivazioni. Colpisce però che buona parte di questi giovani in impasse risultino spesso intelligenti, capaci, e che se la sono cavata complessivamente bene negli studi precedenti. Una cosa che fa pensare. Fa pensare a questi tipi di crisi, almeno in parte, come alla punta dell’iceberg di profondi cambiamenti sopravvenuti nelle attuali generazioni, negli ultimi decenni. Cambiamenti che hanno reso i nostri figli, per certi aspetti, davvero molto più forti di noi, per altri più vulnerabili ed esposti. Più forti perché per molti aspetti più creativi e originali, più capaci di contatto con le proprie propensioni e sensibilità individuali, meno soggetti a destini imposti e precostituiti, in grado quindi di immaginare profili creativi e originali con i quali pensare di prendere posto nel mondo. In questo supportati anche dal mondo globalizzato e tecnologico in cui nascono e nel quale imparano precocemente a muoversi e a sfruttarne le potenzialità. Come non pensare subito, in questo senso, a uno fra gli esempi più eclatanti e noti? A Facebook, l’espressione forte e chiara di come un’intuizione creativa e felice di un giovane, in poco tempo, abbia preso potentemente forma grazie anche al supporto delle nuove tecnologie, diffondendosi e conquistando il mondo intero, con una rapidità, solo qualche decennio fa, inimmaginabile.
Per altri aspetti, però, i nostri figli, appaiono anche più fragili ed esposti: meno abituati a ritenere assolutamente normali le cose che per noi era più scontato, volenti o nolenti, dover imparare a gestire. Vittorie e insuccessi innanzitutto, una buona quota di solitudine nel mettere a fuoco capacità, ma anche a fare i conti con i limiti personali, ad accettare la gradualità di ogni percorso e quindi a tollerare la frustrazione di non essere da subito come si desidererebbe. Aspetti tutti che dai ragazzi di oggi, non certo da tutti e ovviamente non da tutti con la stessa intensità, tendono invece ad essere percepiti più come una sorta di sfortunate circostanze o quasi di ingiustificabili affronti alla propria persona. Aspetti che, un po’in tutti gli ambiti di vita, ma sicuramente nello studio, a maggior ragione in quello universitario, sono d’altro canto ineliminabili. In uno studio che ovviamente si amplia per quantità e complessità e nel quale essere svegli, brillanti, intelligenti e creativi, rimane molto importante, ma certo non sufficiente. È allora in questo contesto, che ad esempio, a tu per tu con alcune discipline che si rivelano più complicate o più noiose del previsto, con la delusione di un incontro mancato rispetto a quanto atteso e immaginato, il sentimento di delusione può diventare davvero cocenti, molto più di quanto ci si potrebbe aspettare. Allo stesso modo, l’impatto con un ambiente, quello universitario, descritto, spesso a ragione, come troppo spersonalizzante, con le sue aule stracolme,con docenti di fretta, con una organizzazione carente, può produrre sentimenti di mortificazione importanti. Più importanti di quanto potremmo noi adulti immaginare.
Sentimenti di delusione e di mortificazione, oggi, in epoca di selfie, sono infatti sentimenti avvertiti come molto meno tollerabili. L’ossessione martellante di riprendere, di catturare e da subito condividere, rendendola visibile, la propria immagine nel pieno del suo splendore e magnificenza, nel pieno della sua giovinezza e felicità, lascia pochi margini di tregua. Se così non è, bisogna immediatamente cambiare inquadratura, cancellare e omettere l’imperfezione. Scongiurando l’orrore, divenuti allora impresentabili, di diventare invisibili.È in questo contesto che ormai pervade tutti noi che la disciplina deludente o un esame andato male possono allora arrivare a sollecitare fantasie o vere e proprie decisioni, di cambiare strada, magari più di una volta: alla ricerca della facoltà rispondente, quella che saprà dare una gratificazione e un riconoscimento più forti e tangibili, alla propria sensibilità e alle proprie inclinazioni. Una cosa ovviamente, sulla base di queste motivazioni, spesso destinata a nuovi fallimenti.
Avviene allora che nella stanza dello psicologo ci si trovi allora a lavorare a lungo proprio su questi temi: su una mortificazione che oggi, per motivi molteplici e complessi che qui non è possibile analizzare, tende ad essere eccessiva, ogni volta che la propria immagine non viene rimandata come vincente e promuovibile, quando è fragile e imperfetta. Lasciando di conseguenza, come uniche vie pensabili, la fuga in un nuovo e illusorio paradiso o lo stallo in uno stato di pericolosa demotivazione. Si lavora sulla possibilità che la noia, la fatica, la solitudine, i propri e gli altrui limiti, ritornino ad avere cittadinanza al pari di altri sentimenti più gratificanti e immediati. Cose normali della vita che è necessario imparare a tollerare e a gestire, piuttosto che armi puntate contro la magnificenza e il valore di sé.
Quando i ragazzi intravedono la possibilità di essere normali, bravi e carenti, forti e fragili non come cose umilianti (e non è sempre facile e talvolta non ci si riesce affatto) innanzitutto appaiono molto sollevati e non di rado si rimettono al lavoro. Una cosa che deve fare riflettere innanzitutto noi adulti. Noi adulti che a vario titolo abbiamo responsabilità e ruoli di guida verso i nostri figli. Viene ormai detto e scritto da più parti, che non è più rinviabile una rivisitazione critica e collettiva di alcuni dei principi che guidano le nostre attuali pratiche educative e che hanno finito per tenere davvero poco conto di una sufficiente educazione al limite, alla tolleranza della frustrazione e alla gradualità e della messa a fuoco e nel raggiungimento di ogni obiettivo. Cosa assolutamente sacrosanta, vera e necessaria, ma intrinsecamente legata anche a un altro aspetto. Un aspetto che, al pari di quello educativo, va reso oggetto di un’analisi e di una ricerca di soluzioni istituzionali e collettive, altrettanto attente e mirate: davvero scarsi appaiono oggi gli ambiti di vita in cui i ragazzi possano fare esperienza di sé e familiarizzare di più con la fatica, ma anche la soddisfazione, di costruire se stessi. Quando dovrebbero imparare i nostri figli ad aver a che fare ad esempio con un capo arrogante, con colleghe che la pensano in altri modi, con il vedere avanzare chi magari lo merita meno, con il misurarsi con la propria bravura, ma anche con la propria incapacità?
Sin da bambini, spariti i cortili, sono per lo più inseriti in contesti protetti, pre-selezionati, in corsi, in addestramenti di vario tipo; divenuti adolescenti, a parte la scuola, hanno ben pochi ambiti di aggregazione e di confronto; ormai giovani universitari, ben poche sono le occasioni in cui possono mettere in pratica in modo serio quello che studiano, ad esempio attraverso un contatto più diretto e significativo con il mondo del lavoro. Per non parlare di quando, ormai giovani adulti, pensano a un dopo che sentono incerto e con poche prospettive. Insomma, un vero paradosso. Da una parte chiamati a un’originalità esasperata, in quanto tale già di per sé malsana, dall’altra deprivati di ambiti di vita significativi in cui esercitarsi a costruirla. Senza una rivisitazione critica collettiva di questi aspetti, da una parte legati all’educazione affettiva, dall’altra alla messa a punto di politiche più lungimiranti sulla creazione di molti più ambiti di sperimentazione, è davvero difficile produrre cambiamenti positivi.
Anche in famiglia, però, si può forse iniziare a fare qualcosa, se non altro a partire da una riflessione autocritica su questi temi. Ad esempio quella per cui, mentre aiutiamo i nostri figli a intercettare e a dare corpo ai loro talenti, sforzandoci di intercettare il corso di studi più adatto, che possa renderli diversi, visibili, più inseribili in un mondo divenuto oggettivamente non facile, dobbiamo mostrarci altrettanto convinti e creativi anche in altro. Aiutarli da subito, il più precocemente possibile, a intercettare occasioni in cui misurarsi anche sul campo, nella vita, tanto più all’Università. Età in cui spesso si chiede loro solo di essere bravi studenti. Chiediamo invece di meno, o non con sufficiente autorevolezza, di trovarsi anche una piccola occupazione, con la quale iniziare ad esempio a pagarsi i propri sfizi e magari parte delle vacanze. Non è certo una soluzione ai problemi, ma un’ottica in cui orientarsi con maggiore convinzione, non solo come dovere, ma anche come occasione oggi ancora più preziosa e indispensabile in cui mettersi alla prova.
Quando i ragazzi, attraverso più strade, cominciano allora a potere reinserire nel loro abc emotivo assieme agli aspetti di maggiore gratificazione e immediatezza quelli che hanno più a che fare con la fatica, con la frustrazione, con la gradualità, come normali cose da imparare a gestire, quando al contempo trovano maggiori ambiti in cui sperimentarsi e conoscersi, spesso cominciano a stare meglio. Stanno meglio perché sentono possibile una prospettiva in cui conoscersi e gradualmente andare ad occupare il proprio posto nel mondo. Non di rado allora concludono l’Università e diventano davvero capaci, forse più di noi, di grandi cose.