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Condividiamo l’intervista di Paolo Campostrini a Matteo Lancini per altoadige.it

Essere online è una condizione tecnica. Essere “onlife” lo è invece in senso pienamente esistenziale. Che vuol dire, nella pratica? Non distinguere più tra vita reale e virtuale. Stare in un luogo terzo in cui si mangia solo se si posta il cibo, ad esempio. O essere dentro un viaggio non perché lo si tocca – persone, cose, aria che si respira altrove – ma per la ragione che tu e il paesaggio finite in Instagram. E sono i like a testimoniare che si è giunti laggiù, non il carico di esperienze reali che si sono accumulate camminando tra odori e sapori inediti. Nessun sapore se non ne esiste una possibile immagine. Poi c’è la scuola. E qui la questione si complica. C’è chi dice, tra i professori: via i telefonini in classe. C’è chi dice, tra i genitori: basta stare davanti al cellulare. «Ma poi c’è la vita – dice Matteo Lancini – che, per dirne una, se in una qualsiasi università non sai muoverti come un esploratore senza paura tra Internet e computer neanche ti fanno fare gli esami». Lancini è uno psicologo e uno psicoterapeuta. Ed è docente di psicologia a Milano Bicocca. Sta su quella linea di fila che osserva, da un lato la nevrosi degli adulti tra minori sempre attaccati al web e, dall’altro, tra quelle degli studenti che vedono gli adulti non staccarsi mai dal cellulare e poi chiedere a loro di chiuderlo a chiave in un cassetto. Era sabato a Bolzano tra i relatori del convegno di due giorni «L’alunno (iper) connesso: filosofia, etica e pratica dell’on-life», organizzato in municipio dall’Associazione Elisabetta Paolucci.

Che succede con i telefonini, professore?

Che il problema sono gli adulti. Sono loro i fragili. Il mondo in cui vivono i ragazzi, quello “onlife”, l’hanno creato loro. Cioè noi. E adesso annaspano.

Lo fanno come?

C’è chi vuole vietare i telefoni a scuola, ad esempio. Poi c’è chi prova a vietarli anche a casa. Senza pensare che sono stati gli stessi genitori che oggi si agitano, ad aver regalato, ieri, ai loro figli un cellulare quando invece potevano farne tranquillamente a meno.

Con quali alternative?

Beh, ce n’erano.

E dove?

Nei cortili, nei parchi. Ovunque si potesse giocare, rincorrersi, litigare. Anche in strada. Tutti questi posti sono scomparsi. C’è stata una loro eliminazione sistematica. Resta solo la scuola. Ma quella non è il cortile.

Dunque sono gli adulti i colpevoli?

E chi se no? Chi ha insegnato, con l’esempio, che la vita reale non esiste se non dentro quello strumento che si chiama telefonino, ipad o computer? E poi, davanti ai figli, che poi si chiedono perché proibirlo a loro, i genitori non fanno altro che telefonare, postare, lavorare al computer.

Lo fanno da quando?

Da sempre. La certezza che un figlio è nato arriva dal fatto che si è postata una sua immagine. E poi la prima camminata, il vagito, i giochi con il cane. Gli adulti mettono i minori ovunque sul loro telefonino e poi si chiedono perché una volta cresciuti, non se ne riescono a staccare.

Lei parla della schizofrenia del divieto del cellulare da ragazzi ma dell’obbligo di stare poi in Internet quando crescono.

È così. Spieghiamo in tutti i modi, e lo spiega anche la scuola, che ci aspettiamo da loro che inventino un nuovo videogioco, che si trasformino in maghi del web, ragioniamo sul fatto che se mai dovessero trovare un lavoro, questo sarà tutto ancora da inventare ma avrà sicuramente a che fare con la rete.

Qual è lo schema in cui si è deciso di inserire i ragazzi a proposito di cellulare e internet?

Questo: dagli zero ai 12 anni, telefonino e web libero, anzi compiacimento diffuso tra i genitori che postano a loro volta tutto quello che riguarda il pargolo. Dai 12 anni ai 18, invece stop: studiare e niente cellulare, nessun telefonino in classe e via di seguito. Infine, dai 18 in su, ecco che il mondo chiede a loro di fare ogni cosa con quell’aggeggio in mano, dagli esami al colloquio di lavoro.

Perché sempre più minori sono attratti dall’essere “onlife”?

Si dice che si condannano alla solitudine perché vanno su Internet. Che così facendo non conoscono l’empatia, non imparano nulla del mondo reale. E invece è il contrario, vanno su internet proprio perché sono soli, perché gli adulti, genitori in testa non hanno tempo per loro e quel poco che hanno, via dal lavoro, lo passano al cellulare.

La fuoruscita dall'”onlife”?

Mettere online la vita reale. Ma dovranno essere gli adulti ad insegnarlo. E per farlo, dovranno uscire dal loro “onlife…”.