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Condividiamo l’editoriale di Matteo Lancini per La Stampa.

C’è un provvedimento, tra quelli contenuti nel Ddl 1830 in materia scolastica, approvato dalla Camera, che stona con tutti gli altri. È quello relativo alle sospensioni. Un’iniziativa dissonante perché illude, facendoci per un attimo credere che finalmente chi ci governa abbia maturato competenze su chi sono i figli e gli studenti di oggi. Da tempo la trasgressione non esiste più e i comportamenti delle nuove generazioni hanno un movente e un significato del tutto diverso rispetto al passato. Trasformare la sospensione in una punizione aggiuntiva, non allontanando lo studente da scuola e sostenendolo in esperienze di utilità sociale, risponde all’obiettivo di promuovere un’elaborazione del gesto violento. I bulli prevaricano chi è fragile perché mal tollerano la propria fragilità e cercano di negarla attraverso la sottomissione del compagno in difficoltà. Non è vero che i bulli attaccano chi è diverso ma chi è molto simile a sé, cioè fragile. Per questo, le esperienze che li mettono in contatto con associazioni che si occupano di soggetti in difficoltà, li aiutano ad accettare la fragilità propria e dell’altro. Queste iniziative, peraltro, sono diffuse da tempo e sono nate dall’intuizione di docenti e dirigenti, che da almeno vent’anni si sono accorti che sospendere uno studente non porta ad alcun risultato e per questo applicano la «sospensione con obbligo di frequenza».

Leggendo gli altri provvedimenti, l’illusione si fa realtà. Voti in condotta e multe che rimetterebbero al centro l’autorevolezza del docente e la cultura del rispetto. Questi provvedimenti, in realtà, indeboliranno il ruolo docente e acuiranno la distanza e il conflitto tra gli insegnanti educativamente meno competenti e gli allievi. Gli adolescenti odierni sono espertissimi di relazione e come sanno insegnanti e dirigenti scolastici raccontano aspetti di sé e della propria vita che mai nessuno di noi avrebbe consegnato in gioventù a un preside o a un docente. Appena intercettano un adulto competente, appassionato, capace di interessarsi davvero a chi è lo studente che ha di fronte, gli raccontano tutto, si affidano a lui, in nome della relazione e non della sottomissione. Purtroppo, lo spaesamento degli adulti odierni, porta anche alcuni politici a sostenere che quello che oggi serve alle nuove generazioni sono il divieto dello smartphone a scuola e petizioni limitanti e inattuabili. Slogan accattivanti, a cui aggiungere dati smentiti dalle ricerche scientifiche serie e affermazioni terribili, che sosterrebbero che il fenomeno del ritiro sociale dipenderebbe dalla dipendenza da internet. Chiedo scusa io per loro, a tutti: istituzioni, genitori e scuole che, da sempre, si occupano degli hikikomori italiani e che sanno che internet è la salvezza di un popolo di adolescenti maschi che stanno fuggendo da una scuola competitiva e che ha messo al centro il voto numerico e non l’apprendimento.

È in corso una diaspora dalla scuola e avanza la denatalità. Andiamo avanti così e tra qualche anno i docenti assegneranno un cinque in condotta e sequestreranno lo smartphone al banco e alla seggiola, gli unici presenti in aula vuota, priva di studenti che avranno deciso di abbandonare la scuola. Sono sicuro che anche allora dichiareremo spavaldamente che è stato lo smartphone a catturarli. A questo punto, nessuno potrà contraddirmi se sostengo che per restituire autorevolezza all’insegnante sia doveroso dotarlo di una verga con la quale colpire le mani dell’alunno indisciplinato, non prima di averlo fatto inginocchiare sui ceci e costretto a indossare un cappello da asino. Personalmente, le ritengo misure urgenti per frenare la deriva morale del nostro tempo che, come è ormai evidente, dipende dalla condotta disdicevole di bambini e adolescenti a scuola e non da noi adulti, che siamo sempre più autorevoli, credibili e attenti ai bisogni evolutivi delle nuove generazioni.